Noi e l’Italia che verrà. Il sogno del futuro
Gli italiani faticano a immaginare il futuro. Sospesi
tra la voglia di cambiare e la difficoltà di capire. Così il sondaggio
CambItalia, condotto da Demos per la Repubblica delle Idee, offre indicazioni
incerte.
Cosa si aspettano gli italiani. Ecco i risultati del sondaggio Demos presentato
alla “Repubblica delle Idee”, che prende il via oggi a Bologna
di Ilvo Diamanti
Gli italiani faticano a immaginare il futuro. Sospesi tra la voglia di cambiare e la difficoltà di capire. Come e chi. “Come” cambierà il Paese. “Come” cambierà la società. E ancor più: “chi” sia in grado di produrre e guidare il cambiamento. Così il sondaggio CambItalia, condotto da Demos per la Repubblica delle Idee, offre indicazioni incerte. Come incerto, d’altronde, è il domani. Così gli italiani si dividono equamente, quasi a metà, fra chi pensa che il Paese tra cinque anni sarà cambiato profondamente (52%) e chi ritiene, invece, che non avverranno mutamenti di rilievo. La grande maggioranza di coloro che credono nel cambiamento (62%) immagina, peraltro, che il futuro ci riservi un Paese migliore. E poco meno di metà degli intervistati (49%) azzarda che, tra dieci anni, saremo più “felici”.
In altri termini, gli italiani, nell’incertezza, preferiscono guardare il prossimo futuro con un atteggiamento di cauto ottimismo. Senza esagerare, visti i tempi.
Tra gli attori del
cambiamento, gli italiani investono, soprattutto nei giovani (46%),
fra i soggetti sociali. E credono nell’Unione Europea (24%), fra le
istituzioni. Minore, ma comunque rilevante l’importanza attribuita alla scuola,
agli imprenditori, alle donne. Inoltre, agli organismi finanziari — le banche,
le borse. Ma anche allo Stato e agli attori politici.
Sorprende, invece,
il limitato rilievo riconosciuto
alla Chiesa. Che, secondo il 54% degli
intervistati, in futuro è destinata a contare meno nelle vicende nazionali.
Peraltro, tre italiani su quattro scommettono
che, fra dieci anni, l’euro ci sarà
ancora. E che in Italia avremo un presidente
della Repubblica o almeno un premier
“donna”. I giovani, le donne, l’Europa: i fattori e gli attori del
cambiamento immaginato ma, soprattutto, auspicato. Perché non vi sono molte
ragioni per credere che i giovani e le donne troveranno più spazio, rispetto a
oggi, nei centri di governo. Mentre l’Unione europea
e l’euro attraversano grandi difficoltà. Tuttavia, l’Europa e la sua moneta continuano ad essere percepite come riferimenti importanti, in tempi di crisi. Forse perché è diffusa la percezione della nostra fragilità sul piano internazionale, rispetto a Paesi vicini e lontani. Infatti, oltre 8 persone su 10 ritengono che fra dieci anni la Cina eserciterà sulla nostra economia e sulla nostra società un’influenza superiore rispetto a oggi. La stessa opinione espressa dalla maggioranza degli intervistati (intorno al 60%) relativamente alla Germania, l’India, i Paesi Arabi, gli Stati Uniti. È un segno dell’importanza del “sentimento globale”, accentuato dalla consapevolezza di quanto la nostra economia e la nostra stessa vita dipendano dalle scelte e dagli avvenimenti che si realizzano “altrove”. Dove noi, personalmente, non riusciamo e non possiamo arrivare. Mentre gli “altri”, le persone di Paesi “lontani”, arrivano da noi, sempre più numerosi. Nei confronti degli immigrati, peraltro, non emergono “paure” eccessive. Quasi 2 persone su 3 ritengono che gli stranieri si confermeranno una risorsa, più che un problema. Mentre quasi il 60% degli italiani non teme l’impatto futuro della religione islamica. Ciò significa che, parallelamente, quasi 4 persone su 10 guardano gli stranieri e le altre religioni (le religioni degli altri) con inquietudine. Ma, almeno per ora, la “paura del mondo” non pare aver prodotto la sindrome dell’invasione. E non ha, peraltro, alimentato le divisioni interne al Paese. Il localismo delle
piccole patrie. Visto che quasi 9 persone su 10 si dicono certe che, fra dieci anni, l’Italia sarà ancora unita. Mentre solo il 16% pensa possibile l’indipendenza del Nord (che non necessariamente vuol dire secessione).
Il segno della globalizzazione: è marcato anche dall’importanza attribuita, come fattori di innovazione, alle nuove tecnologie della comunicazione. Alla rete, ai pc, ai social network. Che promuovono e moltiplicano le relazioni aterritoriali. A distanza anche notevole. Il loro peso cresce sensibilmente fra i più giovani, con meno di trent’anni. Appare, invece, molto più limitato il ruolo attribuito, nel futuro, ai media tradizionali. Le tivù e i giornali (che non a caso hanno sviluppato connessioni sempre più strette con la Rete).
Insomma, gli italiani, descritti dal sondaggio CambItalia di Demos, guardano il futuro con prudenza e un po’ di apprensione. Sanno che le cose sono destinate a cambiare in fretta e profondamente. E che i cambiamenti dipenderanno dagli “altri” più che da noi. Da ciò che avverrà in altri Paesi, lontani. E vicini (come la Germania). Per questo continuano a scommettere sull’Europa e sull’euro. E sull’unità del Paese. Perché divisi e soli è più difficile andare lontano. Peraltro, vorrebbero affidarsi ai soggetti che finora sono stati esclusi dai luoghi del governo e del potere. I giovani e le donne. Perché è difficile cambiare con una classe dirigente sempre più vecchia. Tuttavia, quando si tratta di indicare gli attori del cambiamento, tornano gli stessi nomi di oggi e di ieri. Per primi: Monti e Grillo. Il Grillo-Montismo, Giano bifronte del post-berlusconismo. Seguono, a distanza, con un numero ridotto di segnalazioni: Napolitano, Berlusconi, papa Benedetto XVI e Bersani. Un’età media superiore a 70 anni. Protagonisti del presente e del passato.
e l’euro attraversano grandi difficoltà. Tuttavia, l’Europa e la sua moneta continuano ad essere percepite come riferimenti importanti, in tempi di crisi. Forse perché è diffusa la percezione della nostra fragilità sul piano internazionale, rispetto a Paesi vicini e lontani. Infatti, oltre 8 persone su 10 ritengono che fra dieci anni la Cina eserciterà sulla nostra economia e sulla nostra società un’influenza superiore rispetto a oggi. La stessa opinione espressa dalla maggioranza degli intervistati (intorno al 60%) relativamente alla Germania, l’India, i Paesi Arabi, gli Stati Uniti. È un segno dell’importanza del “sentimento globale”, accentuato dalla consapevolezza di quanto la nostra economia e la nostra stessa vita dipendano dalle scelte e dagli avvenimenti che si realizzano “altrove”. Dove noi, personalmente, non riusciamo e non possiamo arrivare. Mentre gli “altri”, le persone di Paesi “lontani”, arrivano da noi, sempre più numerosi. Nei confronti degli immigrati, peraltro, non emergono “paure” eccessive. Quasi 2 persone su 3 ritengono che gli stranieri si confermeranno una risorsa, più che un problema. Mentre quasi il 60% degli italiani non teme l’impatto futuro della religione islamica. Ciò significa che, parallelamente, quasi 4 persone su 10 guardano gli stranieri e le altre religioni (le religioni degli altri) con inquietudine. Ma, almeno per ora, la “paura del mondo” non pare aver prodotto la sindrome dell’invasione. E non ha, peraltro, alimentato le divisioni interne al Paese. Il localismo delle
piccole patrie. Visto che quasi 9 persone su 10 si dicono certe che, fra dieci anni, l’Italia sarà ancora unita. Mentre solo il 16% pensa possibile l’indipendenza del Nord (che non necessariamente vuol dire secessione).
Il segno della globalizzazione: è marcato anche dall’importanza attribuita, come fattori di innovazione, alle nuove tecnologie della comunicazione. Alla rete, ai pc, ai social network. Che promuovono e moltiplicano le relazioni aterritoriali. A distanza anche notevole. Il loro peso cresce sensibilmente fra i più giovani, con meno di trent’anni. Appare, invece, molto più limitato il ruolo attribuito, nel futuro, ai media tradizionali. Le tivù e i giornali (che non a caso hanno sviluppato connessioni sempre più strette con la Rete).
Insomma, gli italiani, descritti dal sondaggio CambItalia di Demos, guardano il futuro con prudenza e un po’ di apprensione. Sanno che le cose sono destinate a cambiare in fretta e profondamente. E che i cambiamenti dipenderanno dagli “altri” più che da noi. Da ciò che avverrà in altri Paesi, lontani. E vicini (come la Germania). Per questo continuano a scommettere sull’Europa e sull’euro. E sull’unità del Paese. Perché divisi e soli è più difficile andare lontano. Peraltro, vorrebbero affidarsi ai soggetti che finora sono stati esclusi dai luoghi del governo e del potere. I giovani e le donne. Perché è difficile cambiare con una classe dirigente sempre più vecchia. Tuttavia, quando si tratta di indicare gli attori del cambiamento, tornano gli stessi nomi di oggi e di ieri. Per primi: Monti e Grillo. Il Grillo-Montismo, Giano bifronte del post-berlusconismo. Seguono, a distanza, con un numero ridotto di segnalazioni: Napolitano, Berlusconi, papa Benedetto XVI e Bersani. Un’età media superiore a 70 anni. Protagonisti del presente e del passato.
La voglia di
cambiamento è, dunque, tanta. Ma la ricerca di figure nuove non è ancora cominciata.
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