Anche Travaglio si è lasciato “trasportare”
dalla percentuale: 40. Ma si tratta, in numero di elettori, di 2.500.000 di
voti. Non che siano da sottovalutare, considerando che Renzi governa da tre
mesi, per quanto sia conosciuto al gentile pubblico da un anno e mezzo. Ma ha
preso meno di voti di quanti ne stia perdendo di elezioni in elezione, Silvio
Berlusconi. E quei voti lì, non sono andati a Renzi se non in misura risibile.
Il che, vorrà pur dire qualcosa…..
da: Il Fatto Quotidiano
Mentre prosegue festosa la corsa sul carro
del vincitore, anzi è appena cominciata, trovo sul web (copyright Adriano
Colafrancesco) una definizione che mi pare azzeccata: “Democrazia Renziana”.
Matteo Renzi non è il nuovo Berlusconi: non aveva stallieri mafiosi, non stava
nella P2, non ha alle spalle poteri criminali, non è miliardario, non è uomo di
azienda, non possiede tv né giornali (che semmai gli si offrono spontaneamente,
cioè italianamente). Ma la pancia di una certa Italia lo vede e lo sente come
il nuovo Berlusconi, cioè come il nuovo messia, il salvatore della patria, il
populista ridens con il sole in tasca e 80 euro in mano, l’uomo solo al comando
nelle cui braccia gettarsi e del cui verbo ubriacarsi, un po’ per speranza un
po’ per disperazione. Un
Berluschino un po’ allergico ai controlli, alle
critiche e ai sindacati, con qualche conflitto d’interessi fra gli amici, ma
molto più giovane e meno ideologicamente connotato, più sbiadito e gelatinoso,
dunque più trasversale. In una parola: democristiano. In senso tecnico, non
deteriore.
Bisogna infatti risalire agli anni 50, cioè
all’apogeo del centrismo, per trovare un partito – la Dc – sopra il 40%. Anche
allora pochi dichiaravano di votarla, ma la votavano in tanti. Un
partito-contenitore, un grande sughero galleggiante che ospitava a bordo tutto
e il contrario di tutto, e lasciava fare a ciascuno i suoi comodi. Prospettiva
molto più comoda e accattivante della quaresimale austerità berlingueriana, incautamente evocata da Grillo e Casaleggio nel paese del Carnevale perpetuo, anche
quando non c’è nulla da ridere. La Dc durò 40 anni, Berlusconi 20. Quanto
durerà Renzi, o meglio l’innamoramento di una certa Italia per lui, dipende
solo da lui (la distanza fra palazzo Venezia e piazzale Loreto è molto più
breve di un tempo).
Il suo governo – nato dall’accrocco fra un
Pd al 25%, un Centro montiano uscito dalle urne un anno fa col 9 e un Nuovo
Centro Destra dato dai sondaggi al 6-7 – ora è un monocolore pidino, anzi
renzino, che s’è mangiato gli alleati. Ma che dovrà seguitare a fare i conti
con un Parlamento che non rappresenta più le vere forze in campo e con una
maggioranza votata domenica da appena il 27 % degli elettori aventi diritto al
voto. I partner ufficiali Alfano, Casini e Monti, per non estinguersi alle
prossime urne, dovranno marcare le distanze dalle cosiddette “riforme”,
Italicum e nuovo Senato, peraltro pessime. Così paradossalmente il Pd al
massimo storico dovrà chiedere aiuto a un Berlusconi al minimo storico. E
sappiamo bene che il soccorso azzurro non è mai gratis.
In questa crepa potrebbe infilarsi il M5S,
se si decidesse a una seria autocritica dopo la batosta (prendersela con i
pensionati allergici al cambiamento fa ridere). Non per ammorbidire la sua
opposizione intransigente, che è ciò che chiedono i suoi 5,8 milioni di
elettori rimasti. Ma per cambiare linguaggio e strategia. Il linguaggio che
paga non è quello provocatorio e paradossale di Grillo (che, tradotto sui
titoli di tg e giornali, diventa serio e truculento, spaventa la gente e non
basta un’ospitata a Porta a Porta per cancellarne gli effetti), ma quello dei
suoi parlamentari migliori (più concreto sulle cose fatte e quelle da fare), e
anche quello autoironico del video
di ieri. Quanto alla strategia, il “mandiamoli tutti a casa”
funzionava contro D’Alema, Bersani, Letta jr. e gli altri brontosauri. Contro
Renzi no, non basta. Renzi va sfidato e incalzato sui fatti. Anche perché
domenica ha risolto tutti i suoi problemi, non certo quelli degli italiani.
Quando, intervistato dal Fatto il 2 gennaio, invitò i 5 Stelle al tavolo delle riforme,
offrendo la rinuncia ai rimborsi elettorali, fu demenziale rispondere picche e
non andare a vedere le carte, magari per smascherare l’eventuale bluff. E
quando il mitico “popolo della Rete” costrinse Grillo ad accettare l’incontro
in streaming con lui, non si aspettava certo il rifiuto totale
di ascoltare e di rispondere, anche duramente, ma sul merito. Ciò detto,
meno male che M5S c’è: altrimenti anche noi, come la Francia e la Gran
Bretagna, avremmo
gli antieuropei xenofobi e lepenisti oltre il 20%.
Pur nella cocente sconfitta, i 5 Stelle si attestano su un 21% di voti
d’opinione e non di scambio (non governando da nessuna parte, non hanno soldi
né favori da elargire e promettere), che potrà aumentare se riusciranno a
entrare in partita, imponendo alcune battaglie giuste a un Pd più che mai in
cerca di sponde: com’è già avvenuto nei voti
contro B. e Genovese, e
contro
la responsabilità civile diretta dei magistrati.
Se aiutassero Renzi a lasciar perdere riforme assurde come l’Italicum e il
Senato delle autonomie e a farne di migliori, sarebbe meglio per loro, per il
Pd e per tutti. Questo in fondo chiedono gli elettori: una maggioranza
purchessia, che però risolva i problemi. Ed esca finalmente dalla campagna
elettorale. Al momento vale il detto di Kierkegaard: “La nave è in mano al
cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la
rotta, ma che cosa mangeremo domani”.
Ps. Alcuni
presunti “colleghi”, abituati al giornalismo embedded specializzati
nello sport nazionale di osannare i governi e di massacrare le opposizioni,
credono che chi prende più voti abbia sempre ragione (la ragione del più forte,
quella del duce). Infatti per vent’anni hanno tenuto il sacco a B. e ai suoi finti
oppositori. E ora pensano di aver vinto le elezioni, che noi avremmo perso.
Spiace deluderli, ma noi del Fatto siamo giornalisti, non politici. Possiamo
permetterci il lusso di votare per chi ci pare e poi di esercitare il nostro
spirito critico nei confronti di tutti, senza confondere il consenso con la
ragione e senza farci prendere dall’horror vacui se ci troviamo in minoranza.
Non siamo più bravi, solo più fortunati:
non abbiamo nulla da guadagnare dalla vittoria di questo né da perdere dalla
sconfitta di quello, perché non abbiamo padroni. E neppure editori costretti a mendicare favori e
fondi pubblici dal governo di turno
per salvarsi dalla bancarotta.
Infatti, diversamente da costoro, non abbiamo mai preteso di insegnare ai
nostri lettori per chi devono votare. Noi perderemo le elezioni quando ci
candideremo. Cioè mai.
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