da: Il Fatto Quotidiano
“Crocifiggilo, crocifiggilo!”. Era il grido
dei Farisei davanti a Ponzio Pilato nel racconto biblico del processo a Gesù.
Un grido – fatti i distinguo del caso e le
debite proporzioni – che ricorda i cori da stadio e i roboanti “vaffa” che ieri
i tassisti milanesi hanno lanciato all’indirizzo di Uber, al cospetto del
Ministro dei trasporti Maurizio Lupi, del Presidente della Regione Lombardia
Roberto Maroni e del Sindaco di Milano, Giuliano Pisapia.
Ma le urla scomposte e violente dei
tassisti non sono l’unica immagine che ricorda il più famoso processo davanti a
Pilato.
Anche quanto accaduto nel Palazzo della
Prefettura di Milano, mentre fuori i tassisti urlavano, rievoca, purtroppo,
dinamiche antiche, anacronistiche e, soprattutto, inaccettabili di
amministrazione sommaria della giustizia e della gestione della Cosa Pubblica.
A prescindere da chi abbia ragione e chi
torto ed a prescindere dal merito della questione guai, infatti, a non
sottolineare che quello andato in scena ieri a Milano è un processo che non ha
niente a che spartire né con la giustizia, né con la politica di un Paese
normale.
Per evitare che questo giudizio tanto
severo suoni come un “giudizio sommario” ad un “processo sommario”, val la pena
metterne in fila le motivazioni di metodo e di merito.
Nel metodo, si fa, innanzitutto, davvero
fatica ad accettare che, ad oltre un anno dallo sbarco di Uber a Milano, un
ministro della Repubblica ed il Presidente della Regione si siano ritrovati
costretti, dalle manifestazioni di un manipolo di tassisti, a “commissariare”,
di fatto, il Comune di Milano per affrontare un problema che avrebbe potuto e
dovuto essere affrontato e risolto già da tempo.
E sempre nel metodo è egualmente difficile
accettare l’idea che si discuta della legittimità o illegittimità di un
servizio in contumacia del gestore di quel servizio ma alla presenza di chi a
quel servizio ha, da mesi, dichiarato guerra aperta e violenta per le strade e
nelle piazze di una grande città.
E lascia egualmente perplessi – ma la dice
lunga sulle attitudini italiane a guardare al futuro – la circostanza che di un
problema che, inesorabilmente, investe il difficile rapporto tra l’innovazione
e la regolamentazione di un mercato, si sia scelto di discutere in un vertice
al quale – ammesso che ancora esista – non ha partecipato nessun rappresentante
delle Istituzioni – né comunali, né regionali, né nazionale – con una delega
all’innovazione.
Date queste premesse di metodo il verdetto,
nel merito, non poteva che essere quello che è stato: sommario, ambiguo,
emotivo, provvisorio e incompleto.
“Uber è fuori legge”, “Uber è illegale”,
titolano oggi i grandi giornali, provando a riassumere le parole con le quali
il Ministro Lupi ha messo a tacere le urla dei tassisti milanesi e raccolto i
loro applausi.
Non è però questo il “dispositivo” – per
dirla in termini tecnici – della “Sentenza” pronunciata ieri dalla “corte
marziale politica”, istituitasi, per l’occasione nella Prefettura di Milano.
La “sentenza” di ieri, infatti, non dice,
in realtà, nulla che già non si sapesse ovvero che alcune possibili forme di
utilizzo di Uber costituiscono una violazione della disciplina vigente e
verranno perseguite – come, peraltro, avviene da mesi – e che la nuova
declinazione del servizio “Uberpop”, così e com’è, rischia di dar luogo a forme
di esercizio abusivo della professione di tassista e conducente pubblico e,
dunque, di essere egualmente fuori legge.
Difficile credere che “così poco”, basti a
chiudere il “caso Uber” ed a riportare ordine nelle strade del capoluogo
lombardo.
Ma anche se così fosse, non si può tacere
che le forme attraverso le quali le Istituzioni avrebbero dovuto, da mesi,
prendere posizione sul fenomeno non sono quelle del pubblico annuncio di un
Ministro della Repubblica che rompe e tacita i cori di protesta dei tassisti.
Su una questione tanto rilevante e
delicata, le Istituzioni amministrano giustizia attraverso i Giudici e
gestiscono la cosa pubblica attraverso circolari, regolamenti e leggi. Gli
annunci sono un’altra cosa.
E c’è un’ultima ragione – ma non per
importanza – per la quale il “verdetto” di ieri suona davvero “pilatesco” e non
convince. Un Paese moderno, nel 2014, non può permettersi il lusso – ad oltre
un anno dallo sbarco in Italia di un servizio innovativo – di limitarsi a dire,
per bocca dei vertici delle Istituzioni, che l’uso del servizio in questione,
in alcuni casi, potrebbe risultare illegale.
Se vogliamo ancora – circostanza della
quale è lecito dubitare – salire sul treno di quel futuro che altrove si chiama
già presente, in un Paese moderno qualcuno, da mesi, avrebbe dovuto elaborare e
discutere con i gestori del servizio una roadmap virtuosa di compromesso tra le
esigenze del progresso, quelle del mercato e quelle legate alla sicurezza dei
cittadini.
Non si discute, infatti, dello “spaccio” in
Italia di una nuova sostanza stupefacente destinata a produrre effetti
drammatici e letali come evocato da alcuni striscioni dei riottosi tassisti milanesi,
ma solo di un app, di un servizio innovativo che in un modo o nell’altro – ove
occorra anche cambiando leggi e regolamenti – dovrebbe essere interesse dei più
lasciar sbarcare in Italia.
Possibile che da noi regolamentazione non
faccia mai rima con innovazione?
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