da: la Repubblica
La
discussione sul bicameralismo perfetto o paritario è condizionata da preconcetti
che non reggerebbero alla critica: anzitutto, la convinzione che il Governo sia
privo di poteri costituzionali efficaci e tempestivi per tradurre in leggi i
propri intenti; poi, che la doppia lettura comporti il raddoppio dei tempi
della legislazione; infine, che la seconda lettura serva solo a insabbiare o a
guastare le buone intenzioni iniziali. Se così fosse, si giustificherebbe
l’abolizione o, almeno, il “senato gratis”: slogan che riassume la
superficialità con la quale si affrontano argomenti serissimi. Su ciascuno di
questi punti, diagnosi e prognosi non di maniera porterebbero a risultati
diversi dalle presunte, ovvie verità. Ma, la questione di fondo, riguarda la
sostanza politico- costituzionale. In breve: qual è la ragione della seconda Camera?
Volendola
mantenere, quale può essere l’utile funzione che le si chiede di svolgere?
Guardando alla storia e ai suoi esempi, si vede che i Senati esprimono o
ragioni federative, nei confronti dello Stato centrale, o ragioni conservative
, di fronte alla Camera elettiva. Da noi, il dibattito sul superamento del
bicameralismo perfetto o paritario si è orientato pacificamente nel primo
senso: “Senato delle autonomie” (“autonomie”, perché il federalismo
non esiste)
al posto del “Senato della Repubblica”. Perché ciò che bene funziona, per
esempio, negli Stati Uniti d’America e in Germania, non dovrebbe funzionare
altrettanto bene in Italia? Non esistono forse, anche da noi, buone ragioni di
coordinamento tra Enti Locali, Regioni e Stato? E poi chi si arrischierebbe
oggi, nel tempo della velocità, a proporre qualcosa di “conservativo”? La
comparazione con gli Stati effettivamente federali — “effettivamente” significa
non che hanno sovrastrutture giuridiche federali o simil- federali, ma che
hanno radici nettamente definite in senso storico-politico, come gli Stati
federati in Usa o i Länder in Germania o le regioni autonome in Spagna — questa
comparazione, non quella puramente esteriore dei giuristi formalisti, porta a
dire che la somiglianza con la nostra realtà è ingannevole. Le nostre Regioni e
Amministrazioni locali, con le eccezioni che confermano la regola, sono grossi
apparati politico-amministrativi che riproducono vizi e virtù
dell’amministrazione e della politica nazionale: sono, in altri termini, articolazioni
di queste. Non è qui il caso di ragionare sulle cause ma, se ciò è vero, che
senso ha una camera delle autonomie, se non quello di rimandare e rispecchiare
al centro interessi, virtù e vizi pubblici e privati che già il centro ha
trasmesso alla periferia? Il pomposo “Senato delle Autonomie” si risolverebbe
in un’articolazione secondaria d’un sistema politico unico che ha da risolvere
al suo interno questioni di natura principalmente finanziaria e amministrativa.
Si
tratterebbe d’un organo di contrattazione di risorse e porzioni di funzioni
pubbliche, in una sorta di do ut des che già oggi trova la sua sede in due
“Conferenze” paritetiche (Stato-Regioni e Stato-città e autonomie locali). Se,
invece, si volesse cogliere l’occasione della riforma per un’innovazione
davvero significativa dal punto di vista non “amministrativistico”, ma
“costituzionalistico”, tenendo conto di un’esigenza profonda della democrazia,
si potrebbe ragionare partendo in premessa dalla considerazione che segue. Le
democrazie rappresentative tendono alla dissipazione di risorse pubbliche,
materiali e immateriali. Sono regimi dai tempi brevi, segnati dalle scadenze
elettorali, in vista delle quali gli eletti, per la natura delle cose umane,
cercano la rielezione, cioè il consenso necessario per ottenerla. Non
conosciamo noi, forse, questa realtà? Debito pubblico accumulato da politiche
di spesa facile nel c. d. ciclo elettorale; sfruttamento e dissipazione delle
risorse naturali; devastazione del territorio; attentati alla salute pubblica;
abuso dei beni comuni nell’interesse privato immediato; applicazioni a fattori
vitali di tecnologie dalle conseguenze irreversibili, infornate di nomine
clientelari in enti pubblici, ecc. Chi se ne preoccupa, quando premono le
elezioni? Non stiamo noi, oggi, scontando drammaticamente questa tendenza
fagocitatrice della democrazia?
Qui
emergono le “ragioni conservative” della seconda Camera: non conservative
rispetto al passato, come fu nel caso dei Senati al tempo delle Monarchie
rappresentative, quando si pose la questione del bilanciamento delle tendenze
dissipatrici della Camera elettiva e questa, secondo lo schema del “governo
misto”, fu affiancata dai Senati di nomina regia. Allora, i Senatierano ciò che
restava dell’Antico Regime, della tradizione e dei suoi privilegi. Ciò che si
voleva conservare era il retaggio del passato. Oggi, si tratta dell’opposto,
cioè di ragioni conservative di opportunità per il futuro, per le generazioni a
venire.
Chi
è, dunque, più conservatore? Chi, per mantenere o migliorare le proprie
posizioni nel confronto elettorale, è disposto a usare tutte le risorse
disponibili per ottenere il consenso immediato degli elettori, o chi, invece,
si preoccupa più dell’avvenire e di chi verrà dopo di lui che non delle sue proprie
immediate fortune elettorali?
Su
questa linea di pensiero, la composizione del nuovo Senato risulta
incompatibile con l’idea di membri tratti dalle amministrazioni regionali e
locali o eletti in secondo grado dagli organi di queste, la cui durata in carica
coincida con quella delle amministrazioni regionali e locali di provenienza.
Questa è la prospettiva “amministrativistica”. Nella prospettiva
“costituzionalistica” la provvista dei membri del Senato dovrebbe avvenire in
modo diverso. Nei Senati storici, a questa esigenza corrispondeva la nomina
regia e la durata vitalizia della carica: due soluzioni, oggi, evidentemente
improponibili, ma facilmente sostituibili con l’elezione per una durata
adeguata, superiore a quella ordinaria della Camera dei deputati, e con la
regola tassativa della non rieleggibilità. A ciò si dovrebbero accompagnare
requisiti d’esperienza, competenza e moralità particolarmente rigorosi,
contenute in regole di incandidabilità, incompatibilità e ineleggibilità
misurate sulla natura dei compiti assegnati agli eletti.
Voci
autorevoli si sono levate in questo senso. Anche l’idea dei 21 senatori che il
Presidente della Repubblica potrebbe nominare tra persone particolarmente
qualificate corrisponde all’esigenza qui sottolineata. Dal punto di vista
democratico, è un’idea insostenibile per una molteplicità di ragioni che i
commentatori hanno già messo in luce. Dal punto di vista funzionale, poi, è del
tutto irragionevole: qualunque organo che delibera deve essere omogeneo. Se non
è omogeneo, può solo formulare pareri, non esprimere una (sola) volontà. Ma
l’esigenza di cui i 21 sarebbero espressione è valida e può essere soddisfatta
per via di elezione, purché secondo i criteri sopra detti. Ai quali se ne
dovrebbe aggiungere un altro: il numero limitato. Negli Stati Uniti, due
senatori per ogni Stato federato. Perché non anche da noi? Due per Regione,
eletti dagli elettori delle Regioni stesse, dunque senza liste, “listoni” o
“listini” che farebbero ancora una volta del Senato una propaggine del sistema
dei partiti, con i condizionamenti e gli snaturamenti che ne deriverebbero.
Questa, sì, sarebbe una novità, perfettamente democratica e tale da inserire
nel circuito politico energie, competenze, responsabilità nuove. Questo, sì,
sarebbe un Senato attrattivo per le forze migliori del nostro Paese che il
reclutamento partitico della classe politica oggi tiene ai margini.
Un
punto critico del Progetto di riforma riguarda la determinazione dei poteri
legislativi e la definizione del rapporto tra le due Camere nel bicameralismo
non paritario. Il nuovo articolo 70 della Costituzione prevederebbe la
supremazia politica della Camera, ma in un labirintico groviglio di ipotesi, in
cui si intrecciano comunicazioni, iniziative di minoranze parlamentari,
proposte di modifica, andirivieni scanditi da termini prefissati, materie sulle
quali le deliberazioni del Senato a maggioranza assoluta possono essere
rovesciate dalla Camera, a sua volta a maggioranza assoluta, eccetera. Non si
può qui possibile discutere la ragionevolezza di questo estremo “giuridicismo”
applicato a organi politici. Ci si deve chiedere se potrebbe funzionare e se,
nel caso in cui il Senato volesse non ridursi a vuoto simulacro, non
determinerebbe frequenti conflitti. Che senso avrebbe, poi, il coinvolgimento
del Senato quando già è nota l’esistenza d’una maggioranza alla Camera, in
grado comunque d’imporre la propria scelta? Un lamento, una protesta fine a se
stessa, tanto più in quanto la legge elettorale sia tale (ma sarà tale?) da
costruire più o meno artificialmente vaste maggioranze “blindate” che non hanno
bisogno di confrontare i loro pro con i contra d’un Senato capace solo di
lamentazione. Futilità. Una seconda Camera di facciata, così poco rilevante che
il Governo, a garanzia della propria linea politica, non ha nemmeno bisogno
della questione di fiducia che, infatti, scomparirebbe.
Nella
prospettiva “costituzionalistica”, la convivenza delle due Camere si potrebbe
risolvere così. Alla Camera dei deputati, depositaria dell’indirizzo politico,
sarebbe riservato il voto di fiducia (e di sfiducia). Le leggi sarebbero
approvate normalmente in una procedura monocamerale. Il Senato, nei casi — si
presume di numero assai limitato, ma non elencabili a priori — in cui ritenga
essere a rischio i valori permanenti che rientrano nella sua primaria
responsabilità, potrebbe chiedere l’attivazione della procedura bicamerale
paritaria. Procedura bicamerale, dunque, ma solo eventuale, quando
effettivamente serve.
(Questo
testo è la sintesi di un documento inviato dal professor Gustavo Zagrebelsly al
ministro per le Riforme Maria Elena Boschi)
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