da: La
Stampa
Nella finale della
coppa calcistica nazionale ogni Paese offre uno specchio di sé. Anche noi,
modestamente. Si comincia con un simpatico assalto degli ultrà della Roma a
quelli napoletani. Non importa che la partita sia Napoli-Fiorentina e i
romanisti non c’entrino nulla. La finale di Coppa Italia è una sorta di
convegno dove delegazioni di violenti provenienti da ogni bar sport della
penisola si danno appuntamento fuori dallo stadio per regolare i conti in
sospeso: laziali contro romanisti, romanisti contro napoletani, pare
addirittura napoletani contro veronesi. Al culmine della battaglia, una brigata
di teste di cuoio giallorosse tende un agguato ai marines partenopei, o
viceversa: dall’immane scontro di cervelli scaturisce un parapiglia. Da qui in
poi i contorni della vicenda diventano ancora più sfocati. L’unica certezza è
che qualcuno estrae una pistola e spara. Riassumendo: un agguato per le strade
e l’assolo di un pistolero. Non a Tripoli o a Beirut, dove al massimo può
succedere di imbattersi in Dell’Utri, ma nel cuore di Roma, capitale di un
sedicente Stato occidentale. Sul selciato restano vari feriti, uno dei quali
messo malissimo. Gli altri travolgono lo sparatore e ne fanno poltiglia da
pronto soccorso.
Dopo essersi
espressa fuori dallo stadio, la cultura sportiva degli italioti si trasferisce
all’interno e assume la forma di due valentuomini appollaiati sopra
una
balaustra, uno dei quali indossa una maglietta che inneggia all’assassino del
poliziotto catanese Raciti, a cui un ultrà tirò addosso un lavandino. I due
pensatori si presentano come i capipopolo della tifoseria napoletana. Pare che
senza il loro meditato assenso non si possa disputare la partita. I desideri
degli altri settantamila dello stadio e dei milioni davanti alla tv non contano
ovviamente nulla. Solo i pendagli da curva hanno il monopolio della minaccia
fisica e verbale. Marek Hamsik, il capitano del Napoli che un destino
milionario ma bizzarro ha condotto dalla natia Slovacchia a questi climi molto
meno temperati, si attarda a parlamentare con gli ambasciatori ultrà e, quando
ormai si sta consumando la vergogna di una resa ai violenti in diretta
televisiva, in un eccesso di magnanimità i capibastone concedono alle squadre e
all’Italia intera il permesso di giocare.
Con un’ora di
ritardo tutto è pronto per la cerimonia dell’inno nazionale ispirata al modello
americano del Superbowl, con una cantante, Alessandra Amoroso, che intona
«Fratelli d’Italia» al microfono. Ma i fratelli riuniti allo stadio fischiano
l’esecuzione fin dalle prime note e ha un bel sgolarsi Matteo Renzi in tribuna:
quando i fischi non bastano più, a soffocare la musica arriva il sostegno di
qualche bombetta carta, una delle quali manda un vigile del fuoco all’ospedale.
Ora che gli agguati,
gli spari, i ricatti, i fischi e i petardi sono finiti, la finale di Coppa
Italia può persino cominciare. L’Italia, quella è già finita da un pezzo.
Naufragata in un profluvio di parole, proclami e decreti che servono a coprire
la mancata applicazione delle leggi. Perché se un hooligan inglese o spagnolo
si azzardasse a fare anche un decimo delle cose che vi abbiamo sommariamente
raccontato passerebbe il resto della sua giovinezza in carcere, meglio ancora a
compiere qualche lavoro socialmente utile. Come del resto chiunque di noi, se
commettesse quegli stessi reati lontano dallo stadio, ormai ridotto a porto
franco della bestialità tribale travestita da «onore e rispetto» non si sa di
chi, certo non degli altri e tantomeno di se stessi. I bambini inquadrati sugli
spalti dell’Olimpico avevano sguardi impauriti e severi: un verdetto di
sconfitta per tutti.
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