Caparezza
- Museica
di Nicolò
Rizzo
Se ancora avete dei dubbi sull'anima
musicale di Caparezza, ci pensa lui stesso a chiarire la situazione: durante la
conferenza stampa organizzata per la presentazione di "Museica", il
rapper riccioluto ha dichiarato apertamente che "questo disco è più vicino
agli Ac/Dc che al rap". A questo proposito, mi permetto di fare
un'ulteriore precisazione: ormai è dal 2006, se non da prima, che Caparezza sta
dimostrando di avere una preparazione musicale ben più vasta non solo dei suoi
ex colleghi della scena hip-hop, ma anche di molti rockers o presunti tali
dell'attuale panorama musicale. In parte hanno ragione i soliti criticoni che,
pur di trovare qualche pecca, si esibiscono in frasi come "gli ultimi tre
album di Capa sono tutti uguali" o "in questo disco non c'è niente di
nuovo", perché è vero: se vi aspettate di trovare in "Museica"
una svolta o un cambiamento di rotta, non potrete che rimanere delusi. L'errore
sta nel vedere questo fatto come un aspetto negativo.
"Museica" suona uguale agli
ultimi due album perché è l'approdo finale di una ricerca musicale che il rapper
di Molfetta porta avanti da anni, cercando di disincagliarsi dalla maledizione
di "Sono fuori dal tunnel" (brano che lo stesso Caparezza sembra
avere ormai rinnegato), dimostrando che la sua arte non si limita
all'orecchiabilità di una hit da Festivalbar. "Museica" è forse il
capitolo più ambizioso di quella che, a tutti gli effetti, può essere
considerata una vera e propria trilogia di "concept album" (i primi
due capitoli sono "Le Dimensioni del mio Caos" e "Il Sogno
Eretico"), in cui, questa volta, il tema centrale è quello dell'arte. Come
si capisce già dal titolo, ascoltare questo disco è un po' come addentrarsi in
un museo: ogni singolo brano è ispirato ad una particolare opera pittorica, che
il buon Michele Salvemini, nel ruolo di una canzonatoria audioguida, prende
come pretesto per sviluppare delle riflessioni che si articolano abilmente in
strofe dalla duplice anima.
Dopo aver superato l'immaginaria coda di
"Canzone all'entrata", il disco parte alla grande con "Avrai
ragione tu (ritratto)", un brano energico che offre all'album una bella
rampa di lancio, un po' come l'incipit con "La Rivoluzione del
Sessintutto" in "Le Dimensioni del mio Caos". "Avrai
ragione tu (ritratto)" è probabilmente il pezzo più marcatamente
caparezziano, nonché quello più esplicitamente politico, in cui, tra cori
sovietici e ritmi da marcia trionfale, Capa si lancia in una dichiarazione
ironica e rabbiosa, che ci dimostra che, sebbene sia un "treno che viaggia
sulla quarantina", di adrenalina ne ha eccome: il disco è ricco di brani
energici, in cui rock e elettronica si fondono abilmente, ripercorrendo il
cammino sperimentale già affrontato con "Il Sogno Eretico". Oltre i
singoli "Cover" e "Non me lo posso permettere", tra le
diciannove tracce si distinguono per un timbro particolare brani come
"Giotto Beat", "Teste di Modì" (che racconta la celebre
beffa delle finte teste di Modigiani, celebrando i falsari e ridicolizzando la
critica) e, soprattutto, "Argenti Vive", un prototipo rock-dubstep
(Muse imparate come si fa) con protagonista Filippo Argenti, nobile fiorentino
famoso per aver dato una bella cinquina sulla faccia a Dante Alighieri, il
quale, in tutta risposta, decide di farlo soffocare nel fango degli iracondi
all'interno della Commedia. Ed è proprio qui che Caparezza, ispirato da
un'illustrazione di Dorè, gli fa prendere la parola, lanciandosi in un attacco
al celebre poeta definibile solo come una gran figata. Detto questo, il disco
non risulta una raccolta di pochi singoli, ma ogni singola traccia costituisce
un importante tassello che non può essere eliminato, dal potente riff di
"Mica Van Gogh" alla delicata "China Town", la prima ballad
di Caparezza, che però non viene dedicata ad una donna, ma alla sua vera
vocazione: la scrittura.
Caparezza firma un disco a tutti gli
effetti importante, l'approdo finale di una ricerca musicale iniziata con
"Habemus Capam", riuscendo a confermare un timbro unico e personale,
con il quale riesce a guidarci, con ironia, verso la riflessione. Se ancora vi
ostinate a vederlo come "quello di Fuori dal Tunnel", mi spiace:
siete più banali dell'allusione sessuale sulle banane.
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