da: la
Repubblica
Italia
sempre più divisa dagli stipendi
Il
10% più ricco riceve il 70% in più della media, mentre la povertà relativa
aumenta di otto punti in trent’anni. Al contrario, i francesi hanno fortemente
ridotto la disuguaglianza e dato ossigeno alle fasce più deboli
di Rosaria Amato
di Rosaria Amato
Forse non porterà entrate gigantesche allo Stato, però il tetto dei 240.000 euro sugli stipendi dei dirigenti pubblici posto dal governo Renzi con il dl Irpef può essere davvero un primo passo per superare una situazione di grave squilibrio tra i redditi degli italiani, che negli ultimi 30 anni si è aggravata pesantemente. «Il rapporto fra i salari relativamente più ricchi ed il salario mediano è aumentato da circa il 140 per cento nei primi anni 80 a circa il 170 per cento nel 2006. Ciò significa che il 10 per cento dei lavoratori con salario più alto riceve circa il 70 per cento di salario in più rispetto al lavoratore mediano», spiega Salvatore Morelli, dottorato in Economia a Oxford, ricercatore presso il CSEF, Dipartimento di Economia e Statistica presso l’Università di Napoli Federico II. Morelli ha appena pubblicato, con Anthony B. Atkinson, professore di Economia all’Università di Oxford e alla London School of Economics, il “Chartbook of economic inequality”, una dettagliatissima banca dati che mette a confronto
cinque
dimensioni diverse di disuguaglianza economica per 25 Paesi diversi a
partire dall’inizio del ventesimo secolo. I risultati per l’Italia sono solo
apparentemente incoerenti: «Se guardassimo unicamente alla classica misura di
disuguaglianza di reddito, il cosiddetto coefficiente di Gini, dovremmo
concludere che la disuguaglianza economica in Italia sia rimasta
sostanzialmente stabile negli ultimi anni, nonostante un lieve aumento dal 2008
al 2010, durante l’acuirsi della crisi economica. - dice Morelli - Il problema
è che però il coefficiente di Gini si basa su dati che vengono da indagini
campionarie, che hanno una forte difficoltà rispetto alla rappresentatività dei
ricchi. Infatti, al di là dei fenomeni dell’evasione e dell’elusione fiscale, è
difficile che una persona veramente ricca dichiari tutte le proprie entrate.
Risultano dunque più indicativi i dati che vengono da tabulazione statistica».
E così, si scopre che l’1 per cento più ricco della popolazione, circa 600.000
persone, nei primi anni ‘80 concentrava nelle proprie mani circa il 6 per cento
del reddito nazionale; negli ultimi anni la stessa quota è arrivata al 10 per
cento. Non solo: «La ricchezza è notoriamente più concentrata del reddito -
rileva Morelli - e anche in questo caso la disuguaglianza è aumentata negli
anni, tanto che l’1 per cento più ricco detiene oggi il 16 per cento della
ricchezza nazionale, quota che nei primi anni 90 era del 10 per cento». Di
contro, il tasso di povertà relativa in Italia è aumentato di 8 punti percentuali,
dal 15 per cento dei primi anni 80 al 23 per cento del 2012. Ecco perché
ridurre gli stipendi dei manager pubblici non basta, come non bastano gli
80 euro in più sullo stipendio garantiti dal dl Irpef a tutti i lavoratori
con salari da 8.000 a 24.000 euro. Servirebbero le misure per i quattro milioni
di incapienti, e non solo: a guardare i dati dei 25 Paesi a confronto, osserva
Morelli, la misura che probabilmente funziona di più è quella del salario
minimo: «Però c’è un’avversione di principio per questo tipo di trasferimenti
che sono considerati improduttivi - ammette l’economista - perché non legati al
fatto che uno lavori». Eppure, i risultati si vedono per esempio in Gran
Bretagna, decisamente un Paese precursore su questo tipo di interventi: «A
fronte di un andamento decisamente peggiore della disuguaglianza nel Regno
Unito - rileva Morelli - però dal 1990 al 2012 la povertà relativa è scesa dal
22 al 16 per cento, un andamento speculare rispetto all’Italia. Nei Paesi
anglosassoni il disinteresse verso la disuguaglianza è affiancato da
politiche di compensazione a favore delle fasce più povere della popolazione».
Certo, la crisi ha messo a dura prova anche modelli storici di grande
validità come quelli scandinavi. Ma ci sono Paesi che tengono duro, nonostante
la crisi, e che, a giudicare perlomeno dai dati, hanno politiche a prova di
bomba per ridurre disuguaglianza e povertà: nella scheda che l’indagine
Atkinson-Morelli dedica alla Francia per esempio si legge che il coefficiente
di Gini è stabile dagli anni ‘90, la disuguaglianza si è ridotta dagli anni ‘60
ai ‘90 e poi si è mantenuta allo stesso livello, la povertà è caduta
ininterrottamente dal 1970 al 2000, per poi salire leggermente solo negli anni
della crisi, la quota dell’1 per cento di redditi e ricchezza è una linea
piattissima.
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