da: la Repubblica
Enzo
Jannacci, il poeta medico che non volle vivere da artista
di Ernesto
Assante
Provare a contenere in poche righe la
carriera, la vita, la personalità di Enzo Jannacci è francamente impossibile,
troppe canzoni, troppe emozioni, troppo teatro, cinema, televisione. Troppa
vita, volendola dire tutta. Vita vissuta per davvero. Sì, perché a differenza
di tanti altri Jannacci è stato un artista vero e non ha mai voluto vivere da
"artista". Era rimasto medico, era rimasto in contatto con la vita
vera, sempre e comunque, quella vita che era stata fonte di ispirazione per
tante, per tutte le sue storie, le sue canzoni, la sua arte. Era un
intellettuale straordinario, ma allo stesso tempo un meraviglioso saltimbanco,
un artista di strada ma anche e soprattutto un poeta. Jannacci incarnava
insomma, un modo di essere cantautore che si era creato e ritagliato su misura,
differente da tutti i suoi colleghi, lontano da ogni tipo di ansia, di ricerca
di successo, e metodicamente calibrato sul rapporto con il pubblico, con chi
decideva di ascoltarlo una volta e poi, inevitabilmente, gli restava legato per
sempre.
Jannacci ha saputo trasformare la canzone in tante cose differenti, in cabaret,
in teatro, in allegoria, in attualità, in cronaca, in poesia, in arte, in
divertimento, in equilibrismo e leggerezza, in ricerca e passione. Perché la
musica, la canzone, era il centro del suo coloratissimo e mutevole mondo, un
mondo fatto di melodie e di ricette mediche, di battute e di sofferenze. Un
mondo fatto di musica suonata, cantata, vissuta fino in fondo.
Milanese, figlio di emigrati, Jannacci esordisce nella musica a vent'anni,
amando il jazz e il rock'n'roll, entrando a far parte nel 1956 dei Rocky
Mountains con Tony Dallara e facendo notte nei club della sua città, dal Santa
Tecla all'Aretusa. Ed è proprio al Santa Tecla che va in scena con la sua nuova
band, i Rock Boys di Adriano Celentano e con loro si esibisce al Palazzo del
Ghiaccio al primo festival rock'n'roll italiano, nel 1957. Jannacci non si
accontenta di suonare una cosa sola, non gli basta esprimersi in un solo
territorio. Mentre è con i Rock Boys di Celentano mette su un duo con il suo
amico Giorgio Gaber, i Due Corsari, e mentre suona con questi frequenta anche i
locali del jazz, suonando con i migliori jazzisti milanesi e offrendo i suoi
servigi come pianista alle stelle americane che arrivano a Milano. E come se
tutto questo non bastasse, inizia anche a incidere i suoi primi 45 giri da
solo, mettendo insieme tutto quello che ama, il rock'n'roll, il jazz e anche la
sua naturale propensione comico-cabarettistica.
Accade tutto velocemente nella Milano che passa dagli anni Cinquanta ai
Sessanta, una città vivace e attenta, dove la musica, le idee, circolano
rapidamente, passano di bocca in bocca, e ogni giorno c'è un nuovo progetto,
una nuova avventura, un un nuovo spettacolo da mettere in scena. Jannacci
scrive canzoni per se stesso e per gli altri (Gaber e Tenco sono i primi a
cantare per lui), le sue canzoni sono cariche di ironia e di passione, spesso
sono storie piccole, di emarginati e dimenticati, che Jannacci ama far
diventare eroi romantici e disperati. Il suo modo di stare in scena, surreale,
distaccato, personalissimo, lo porta naturalmente verso il teatro, e nel
1962 esordisce ufficialmente sul palcoscenico nello spettacolo "Milanin
Milanon", con Tino Carraro e Milly. Poi tutto prende forma in un unico,
importantissimo luogo, dove Jannacci finalmente riesce a convogliare tutte le
sue passioni, il jazz, il cabaret, il rock'n'roll, la canzone d'autore, il
teatro. Quel locale è il Derby, a Milano, una straordinaria piattaforma di lancio
per una intera generazione di artisti, cantanti, attori, autori, che si legano
l'un altro, si confrontano, crescono, cambiano, inventano, ogni sera, in una
febbre creativa che diventa di stimolo per molti altri, che nel locale milanese
trovano un punto di riferimento importantissimo.
Anno dopo anno Jannacci va avanti, continuando a fare il medico, e il successo
arriva e si allarga, collabora con Dario Fo ("Ho visto un re") e con
Cochi e Renato, Lauzi, Toffolo, Andreasi, lo chiama Lizzani a recitare in un film,
approda in televisione dove per molti anni sarà protagonista di gag e canzoni
ancora oggi inimitabili. Tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni
Settanta Jannacci mette a segno non solo canzoni memorabili come "Vengo
anch'io, no tu no", "Faceva il palo", "Messico e
nuvole" (scritta da Paolo Conte), "Ragazzo padre", ma scala
persino le classifiche di vendita, recita ancora al cinema con Monicelli,
collabora con Fiorenzo Fiorentini e Luciano Bianciardi, con Beppe Viola e Marco
Ferreri, collabora addirittura alla realizzazione dello storico Carosello del
"Pianeta Papalla", il tutto mentre prende la specializzazione in
chirurgia, lavorando in Sudafrica con l'equipe di Christian Barnard,
rinunciando a godere del successo ottenuto con "Vengo anch'io", scegliendo
di restare con i piedi per terra e il cuore nella vita.
E così sarà per tutti gli anni Settanta, dove alternerà la sua atività di
medico alle produzioni televisive ("Il poeta e il contadino" del
1973, "Saltimbanchi si muore" del 1979) alla realizzazione di colonne
sonore (magnifica quella di "Romanzo Popolare" di Monicelli, ma anche
quelle di film diretti da Bolognini, Wertmuller, Samperi, le canzoni sporadiche
(da "La Gallina" e "La canzone intelligente" per
Cochi e Renato alla bellissima "Silvano"), e gli album, come, nel
1975 un vero capolavoro intitolato "Quelli che...". E' un ritorno al
successo, che non lo lascerà più, soprattutto negli anni Ottanta, dove metterà
a segno non solo delle canzoni di grande impatto, sia quelle più ironiche sia quelle
più drammatiche e appassionate, ma anche degli straordinari spettacoli dal
vivo, e poi ancora cinema, teatro, televisione, fino alla sua prima
partecipazione al Festival di Sanremo, nel 1989, con "Se me lo dicevi
prima", seguita nel 1991 da una seconda partecipazione con "La
fotografia", magnificamente interpretata anche da Ute Lemper.
Ma gli anni Novanta non fanno per lui, la sua Milano è cambiata, le storie che
a lui piace raccontare non riescono a trovare una casa discografica disposta a
pubblicarle e per ben sette anni non esce un solo disco a sua firma. Nel 2001
finalmente pubblica un nuovo album con la collaborazione del figlio Paolo,
l'anno seguente vince la Targa Tenco con "Lettera da lontano", premio
che vince di nuovo nel 2003. Ma i tempi sono ormai cambiati, Jannacci è uno dei
"senatori" della canzone d'autore, amato, rispettato, lodato,
premiato, ma ornai lontano da un mondo musicale che si muove al ritmo
dell'elettronica e degli mp3.
Non c'è stato in Italia nessun'artista simile a lui, con la sua straordinaria
comunicativa, con la sua eclettica intelligenza, con la sua capacità di essere
comico, drammatico, appassionato, romantico, ironico, attore e autore, cantante
e cabarettista, scrittore e inteprete. E' stato capace di rappresentare
un'Italia in grado di essere creativa e solidale, impegnata e divertente,
piccola e grande nelle sue miserie e nei suoi splendori. Ed è un autore che
meriterebbe di essere scoperto dalle giovani generazioni, che non hanno avuto
magari il piacere di vederlo in scena, di scoprirne le doti più profonde, di
amarlo come ancora meriterebbe di essere amato.
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