Brindisi, Melissa, parla Claudio Strada: "Io un onesto papà, sono stato accusato di avere ucciso Melissa".
Sono un uomo normale. Sono un uomo onesto. Eppure,
per un giorno, sono stato un “mostro”: gli inquirenti hanno sospettato che
fossi io l’assassino che a Brindisi ha fatto esplodere la bomba che ha ucciso
la povera Melissa Bassi. Poi, dopo avermi interrogato per tredici ore, hanno
capito che io non c’entro niente e mi hanno lasciato andare con tante scuse.
Intanto, però, il mio nome aveva già cominciato a circolale e tanti hanno
pensato che io fossi davvero l’autore di questo delitto ignobile: ho ricevuto
insulti e minacce di morte, ho rischiato il linciaggio. E stata una esperienza
devastante, che non auguro a nessuno». «La mia bambina era con me».
Così mi dice, seduto al tavolo del soggiorno di
casa sua un uomo che ha lo sguardo provato di chi sta uscendo, a fatica, da un
incubo. Si chiama Claudio Strada, ha quarantotto anni, è un tecnico elettronico
che ripara computer e vive a Brindisi, nel quartiere popolare Sant’Elia, con
suo fratello e con la figlia di tre anni che ha avuto da una relazione finita
tempo fa: «La mia ex compagna e io», mi dice «abbiamo scelto l’affidamento
condiviso per nostra figlia: la bambina sta un pò con lei e un po’ con me. La
sfortuna ha voluto che, in quel giorno drammatico, la piccola fosse in casa
mia: non solo ha visto carabinieri e poliziotti portare via il suo papà, ma ha
dovuto seguirmi in Questura perché nessun altro la poteva tenere. Non sono
esperienze che una bambina di tre anni dovrebbe fare».
«Un uomo gentile, generoso, sempre pronto ad
aiutare tutti», così i vicini di casa descrivono Claudio Strada. Eppure
quest’uomo «gentile e generoso » è stato sospettato, per un giorno e una notte,
di un delitto atroce, che ha riempito
di indignazione l’Italia e il mondo: lo
spaventoso attentato all’istituto professionale “Francesca Laura Morvillo
Falcone” di Brindisi, in cui tre bombole di gas sono state trasformate in una
bomba assassina che ha ucciso Melissa Bassi, la ragazza di quindici anni e
mezzo che è diventata il simbolo di questa tragedia, e hanno ferito altre
cinque ragazze, che porteranno a lungo i segni di quella violenza. Strada è
subito uscito dalle indagini perché gli investigatori hanno
verificato che ha un alibi e, soprattutto, che non è lui il presunto
attentatore ripreso dalla telecamera di sorveglianza vicino alla scuola,
mentre aziona il telecomando che fa esplodere la bomba. «Ma, prima che la mia
innocenza fosse chiara a tutti, ho vissuto ore da incubo», mi dice lui che
racconta così a Dipiù la sua sconvolgente esperienza di ritrovarsi “mostro per
un giorno”: «I carabinieri e i poliziotti sono venuti di mattina a casa mia, mi
hanno perquisito sotto gli occhi della mia bambina, mi hanno portato in
Questura con lei e sono potuto tornare a casa con la piccola solo alle tre di notte.
È stato il giorno più lungo della mia vita».
Signor Strada, lei non ha mai avuto guai con la
legge. Ha capito perché è stato sospettato di un delitto così
spaventoso? «Sì, gli investigatori me lo hanno spiegato. È tutta “colpa” di
una coincidenza tanto banale quanto dolorosa. Io ho la mano destra
paralizzata, e gli inquirenti avevano pensato che l’attentatore potesse
essere invalido proprio a quella mano: il presunto assassino ripreso
dalla telecamera, infatti, ha sempre la mano destra in tasca. Oltretutto
gli investigatori hanno pensato che l’assassino fosse esperto di elettronica.
Ora, io ho una disabilità proprio alla mano destra e il mio lavoro
è proprio l’elettronica: questa doppia coincidenza ha fatto cadere i
sospetti su di me. Però, al di là del fatto che il mio alibi è stato
verificato, quell’uomo non posso essere io per due motivi. Primo, proprio a
causa della disabilità di cui soffro, io non sono assolutamente in grado di
tenere la mano destra in tasca. Secondo, l’uomo ripreso dalla telecamera ha
una corporatura massiccia, mentre io sono magrolino. Per dissipare
l’equivoco potevano bastare pochi minuti, invece ci è voluta una giornata
intera».
Come è iniziato tutto quanto? Il mio incubo ha un
antefatto: il tremendo attentato alla scuola “Morvillo Falcone”. Io, a quella
notizia, ho provato il dolore e l’indignazione che hanno provato tutti.
“Speriamo che prendano presto il criminale che ha fatto questo!”, ho pensato.
Non immaginavo certo che qualcuno, molto presto, avrebbe pensato che quel criminale
fossi proprio io. Ma l’ho scoperto a mie spese due giorni dopo, alle nove di
mattina». Che cosa è successo? «Ero in casa, stavo vestendo la mia bambina.
All’improvviso hanno suonato alla mia porta e ho sentito le parole:
“Carabinieri, apra!”. Ho aperto e un gruppo di carabinieri è entrato in casa
mia: mi hanno fatto sedere sul divano e hanno cominciato a perquisire me e a
frugare in tutta la casa. Intanto arrivavano altri carabinieri e anche agenti
di polizia. La bambina guardava tutto con occhi smarriti: aveva
l’espressione che ha sempre quando sta per piangere. E io ho intuito, in un
lampo, che sospettavano di me per la bomba: tutta quella agitazione poteva
avere a che fare solo con qualcosa di grosso. Poi uno di loro mi ha chiesto a
bruciapelo: “Perché hai fatto una cosa del genere?’. E ho capito che era
proprio vero: sospettavano di me».
Che cosa ha provato? «Forse questo potrà stupire
qualcuno, ma all’inizio ero calmo, perché sono sempre stato convinto che quando
una persona ha la coscienza a posto non deve temere niente. Poi, però, con il
tempo che passava, la mia preoccupazione è aumentata, soprattutto quando mi
hanno detto, verso le due del pomeriggio: “Venga con noi in Questura”. La mia
ex compagna quel giorno non era a Brindisi. E così la bambina, che era
sempre più nervosa e impaurita, è dovuta venire con me. Devo dire che in
Questura sono stati gentili, premurosi con mia figlia: due poliziotte l’hanno
fatta giocare, per distrarla per tutte le lunghe ore in cui sono stato
interrogato dagli investigatori, che mi chiedevano di raccontare nei dettagli
tutto quello che avevo fatto il giorno dell’attentato e anche il giorno prima.
Io ho risposto con calma a tutte le domande ma, mentre il tempo passava, ho
cominciato ad avere anche qualche brutto pensiero: “Si legge spesso di errori
giudiziari, di innocenti che finiscono in galera per anni prima di essere
riabilitati”, mi dicevo. “E se capitasse anche a me? Che cosa succederebbe a
mia figlia?”. Ma poi, finalmente, ho sentito la frase: ‘Tutto a posto, lei può
andare”. Io avevo perduto la nozione del tempo, non avevo idea di che ora
fosse: sono uscito con la bambina e mi sono accorto che erano le tre di notte».
È stata la fine del suo incubo? «No, non lo è stata. Anzi, la parte peggiore
della mia brutta esperienza doveva ancora arrivare ». Perché? «La mattina
dopo ho saputo che il giorno prima, dalle stanze della Questura era
trapelata la notizia che un uomo era sotto interrogatorio da ore ed erano trapelati
anche dei particolari, come il mio mestiere, la strada in
cui vivo e la mia mano malata, che mi rendevano chiaramente
identificabile. Alcuni giornali hanno divulgato queste informazioni,
qualcuno ha scritto il mio nome. E, subito, sui siti Internet si sono
rincorse voci incontrollate, che dicevano che io ero l’assassino, anzi, il
“mostro”, il “bastardo”, il “vigliacco”. E le conseguenze si sono viste
subito». Cioè? Che cosa è successo? «Sul sito Internet Facebook, alla pagina
in cui pubblicizzo la mia attivita lavorativa, mi sono trovato insulti e minacce
pesanti: “Devi morire”, “Il prossimo a saltare in aria sarai tu”. Le
minacce non si sono limitate a Internet: mentre ero in Questura un gruppo di
persone ha assaltato una macchina della polizia, prendendola a calci e a
spintoni, credendo che a bordo ci fossi io. Volevano linciarmi ». Tutto questo
è molto brutto, ma sarà finito quando lei è stato scagionato. «E invece no,
perché non tutti sanno che sono stato scagionato: il giorno dopo la mia
brutta avventura, ci sono state persone che si sono radunate sotto la mia
finestra per gridare frasi rabbiose. Prima avevo paura di un errore
giudiziario, adesso ho paura della collera popolare. Ho paura di potere
essere vittima della violenza di qualche sconsiderato che cerca vendetta».
Che cosa spera, adesso? «Spero di riuscire a
tornare alla mia vita di sempre. Spero che la mia bambina, che è rimasta
molto scossa, dimentichi questo brutto trauma. E spero che trovino il
prima possibile il mostro che ha ucciso Melissa: quello vero, però. Non
un altro “mostro per caso” come me. Anzi, dopo la brutta esperienza che ho
passato, vorrei approfittare di questa intervista a Dipiù per lanciare un
appello a tutti, inquirenti, giornalisti e cittadini: bisogna sempre stare
molto attenti quando nascono simili sospetti, perché ci può andare di mezzo la
vita di un innocente che viene fatto passare per un “mostro”. E capitato a me,
può capitare a ciascuno di noi».
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