Tornano i Jethro Tull con un tour e un sequel di
"Thick as a brick", 40 anni dopo
di Francesco Prisco
Questa è la storia
di un bambino prodigio col pallino della scrittura, di un premio di poesia
concessogli a suon di fanfara e ritirato con indignazione per una parolaccia
pronunciata durante un programma tv, di un giornale di provincia che documenta
con dovizia di particolari tutto l'accaduto.
O, se preferite, è
la storia di uno degli album più intriganti e complessi che la storia del rock
ricordi: «Thick as a brick», la concept opera progressive per eccellenza
(un solo brano in due movimenti, per un totale di 43 minuti e 50 secondi di
musica) sfornata il 3 marzo 1972 dai Jethro Tull, la band del diabolico
menestrello scozzese Ian Anderson. Che a distanza di quarant'anni esatti torna
impunito sul luogo del delitto: ecco a voi «Thick as a brick 2 – Whatever happened to Gerald Bostock?»,
sequel ideale del capolavoro che fu. Questa volta inciso da solista e portato
in giro in un tour che al momento tocca la Gran Bretagna.
Un disco formato
giornale. Per quanti sanno poco o nulla di tutta questa storia, vale la pena
ripartire dall'inizio: il giornale di provincia era l'immaginario «St. Cleve
Chronicle & Linwell Advertiser», sedici pagine ingiallite che
rappresentavano l'originalissimo packaging di «Thick as a brick». Leggendo le
quali si veniva a conoscenza dell'incredibile (e altrettanto immaginaria)
vicenda di Gerald Bostock, otto anni circa nel 1972, il paffuto e occhialuto
«piccolo Milton» autore del poema «Thick as a brick» (tradotto liberamente:
«Duro come un mattone») che prima riceve poi si vede revocare un riconoscimento
alla sua precoce vena artistica, per aver pronunciato in
diretta televisiva chissà quale parolaccia che comincia con «g» e finisce con «r» (a riguardo, i fan dei Tull ancora dibattono). Lo stesso giornale, al suo interno, riportava l'intero testo del poema e «recensiva» l'adattamento in musica che Ian Anderson e soci ne avevano fatto. Considerando tutta questa mitologia, nonché l'altissimo valore musicale dell'opera che mescola rock, folk, blues e musica da camera nella «new thing» del progressive, non c'è molto da stupirsi se la prima memorabile edizione «sfogliabile» di «Thick as a brick» sia diventata un costosissimo feticcio da collezionisti.
diretta televisiva chissà quale parolaccia che comincia con «g» e finisce con «r» (a riguardo, i fan dei Tull ancora dibattono). Lo stesso giornale, al suo interno, riportava l'intero testo del poema e «recensiva» l'adattamento in musica che Ian Anderson e soci ne avevano fatto. Considerando tutta questa mitologia, nonché l'altissimo valore musicale dell'opera che mescola rock, folk, blues e musica da camera nella «new thing» del progressive, non c'è molto da stupirsi se la prima memorabile edizione «sfogliabile» di «Thick as a brick» sia diventata un costosissimo feticcio da collezionisti.
Che è successo a
Gerald Bostock? E al tempo stesso non c'è da stupirsi del fatto che Anderson si
sia inventato un sequel e… abbia addirittura messo in rete un'edizione on line
del «St. Cleve Chronicle», vincendo le perplessità iniziali.
«All'inizio ero per un no fermo – racconta oggi – dal momento che non mi piace
tornare in dietro in maniera nostalgica per riaccendere la musica. Eppure
l'anno scorso ho cominciato a pensare a cosa sarebbe potuto accadere al bambino
poeta Gerald Bostock». Quarant'anni sono tanti, «così – prosegue il cantante e
flautista scozzese – ho annotato un certo numero di possibilità e ho visto che,
piuttosto che esplorarne una sola, la cosa mi dava la chance di esaminare un po'
di quei momenti che cambiano la vita e che accadono a tutti noi».
I vecchi ferri del
mestiere. Nel nuovo «Thick as a brick», per quanto non reciti la sua parte
Martin Barre (il chitarrista unico superstite, insieme con Anderson, dei Tull
del '72 ndr), gli echi dell'opera originaria si sentono eccome. A partire dalla
strumentazione utilizzata: «Ho deliberatamente scelto – racconta il front
leader della band – di continuare a usare gli strumenti che c'erano allora e
che ancora oggi sono quelli archetipici del rock: la chitarra Les Paul, che è
come uno Stadivari, il Fender Jazz Bass, l'organo Hammond, il flauto. Sono i
miei ferri del mestiere, così ho scelto di mantenere la stessa tavolozza sonora
che ho avuto per l'album originale e stare lontano dal cospicuo ricorso a
sintetizzatori e strumenti digitali».
Uno show «senza
limiti». Anderson continua a girare il mondo in tour, stavolta per proporre uno
spettacolo tematico che contempla l'esecuzione del primo e del secondo «Thick
as a brick» intervallati da venti minuti di pausa come se si stesse eseguendo
un'opera. Roba non da poco, alla luce della complessità strumentale delle
parti. «Se leggessimo una partitura, – ci tiene a precisare – con un direttore
d'orchestra che ti suggerisce e ti aiuta, sarebbe molto più facile. Ma ci tocca
memorizzare e riprodurre tutto. In pratica nessuno ha più di una o due battute
di pausa. Quindi è molto intenso. Divertente e intenso». Anderson è invecchiato
e si vede ma non ha affatto perso il suo proverbiale spirito: «Non è certo
sesso tantrico. Ma è roba senza limiti, sembra che lo spettacolo finisca in un
lampo». In una parola: progressive.
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