Henry
Cesare devi morire
Posti in piedi in paradiso
trama e cast nella pagina successiva
Henry
Roma, ma non
quella dei papi e delle auto blu. Un'insegnante di aerobica che frequenta poche
persone, per di più quelle sbagliate. Un fidanzato tossico e infantile. Un ex
fotografo troppo cinico e troppo fatto. Una banda di malavitosi meridionali e
una gang di africani impegnati a conquistare il mercato dell'eroina. Un duplice
omicidio e due poliziotti ad indagare: uno un po' anomalo, l'altro troppo
normale, risalgono la corrente di una città che parla in varie lingue lo stesso
umorismo nero.
Regia: Alessandro Piva
Sceneggiatura: Alessandro Piva
Attori: Carolina Crescentini, Claudio Gioè,
Aurelien Gaya, Pietro De Silva, Paolo Sassanelli, Michele Riondino, Alfonso
Santagata, Erig Ebouaney, Dino Abbrescia, David Coco, Vito Facciolla, Max
Mazzotta, Susy Laude, Roberta Fiorentini
Fotografia: Lorenzo Adorisio
Montaggio: Alessandro Piva
Musiche: Andrea Farri
Cesare devi
morire
Una docufiction
che segue i laboratori teatrali realizzati dentro il Carcere di Rebibbia dal
regista Fabio Cavalli, autore di versioni di classici shakespeariani
interpretate dai detenuti. Si seguono le loro prove e la messa in scena finale
del "Giulio Cesare", ma anche le vite dei detenuti nelle loro celle.
Regia: Vittorio Taviani e Paolo Taviani
Sceneggiatura: Paolo Taviani e Vittorio Taviani
Montaggio: Roberto Perpignani
Musiche: Giuliano Taviani, Carmelo Travia
Note: Orso d'Oro per il milgior film al
Festival di Berlino 2012.
Recensione di Federico
Gironi
A sei anni da La masseria delle allodole, Paolo e Vittorio Taviani hanno trovato nelle rappresentazioni teatrali dei detenuti del carcere romano
di Rebibbia l’energia e lo stimolo per tornare dietro la macchina da presa e
realizzare un nuovo film.
Da loro scritto e
diretto e realizzato all’interno della struttura carceraria romana e con lo
stesso gruppo di attori-carcerati.
Solo in apparenza docufiction, ma in realtà quasi
interamente rappresentazione, Cesare deve morire racconta la messa in scena del "Giulio Cesare" di Shakespeare,
lasciando che siano pochissime le sovrapposizioni tra la preparazione della
recita e la recita stessa, per esplicita volontà di amplificare al massimo
l’adesione intima e dolorosa dei detenuti ai loro personaggi e ai sentimenti
che veicolano.
Il film dei Taviani riesce indubbiamente a trasmettere
la forza e la passione sorprendenti delle interpretazioni, ed è in grado di
trovare dei momenti di limpida messa in scena dotati di un fascino che prende
le mosse dal contesto ma lo trascende.
Purtroppo, però, è
anche zavorrato da un’idea di cinema obsoleta e fuori tempo.
L’intensità in
bianco e nero del "Giulio Cesare" recitato tra le mura del carcere si
affloscia, infatti, quando i Taviani –
che, sospesi tra sé stessi e Bertold Brecht non hanno voluto né saputo
rinunciare alla sceneggiatura, o abbracciare momenti di pura documentazione -
fanno sentire pesante e invadente la loro mano esterna. Quando cercano di
spezzare la scena con un retroscena comunque artificiale e, quindi,
artificioso.
L’illusione di realtà cercata dai registi non decolla allora mai, e spezza la sospensione dell’incredulità raggiunta nella messa in scena shakespeariana. Peggio: avvolge l’operazione con una sorta di paternalismo accondiscendente che lima le asperità, le personalità, le possibilità.
L’illusione di realtà cercata dai registi non decolla allora mai, e spezza la sospensione dell’incredulità raggiunta nella messa in scena shakespeariana. Peggio: avvolge l’operazione con una sorta di paternalismo accondiscendente che lima le asperità, le personalità, le possibilità.
Perché mostrare
“per finta” due detenuti che litigano “davvero”, un altro incapace di prender
parte alle prove perché provato da un colloquio, uno che immagina l’arrivo in
teatro delle donne o un altro ancora che afferma, recitando, che “da quando ha
conosciuto l’arte la cella è divenuta una vera prigione”, è francamente
fastidioso e moralmente obiettabile, poiché diventa un’ulteriore gabbia
artistica che incarcera i protagonisti.
Posti in piedi in
paradiso
Nel film Posti in
piedi in Paradiso, Ulisse, un ex discografico di successo, vive nel retro del
suo negozio di vinili e arrotonda le scarse entrate vendendo
"memorabilia" su e-bay. Ha una figlia, Agnese, che vive a Parigi con
la madre Claire, un'ex cantante. Fulvio, ex critico cinematografico, scrive di
gossip e vive presso un convitto di religiose. Anche lui ha una bambina, di tre
anni, che non vede quasi mai a causa del pessimo rapporto con l'ex moglie
Lorenza. Domenico, in passato ricco imprenditore, è oggi un agente immobiliare
che dorme sulla barca di un amico e, per mantenere ben due famiglie, fa il
gigolo con le signore di una certa età. Ha un rapporto conflittuale con i due
figli più grandi ed è perennemente in ritardo con gli alimenti da versare alla
sua ex moglie e all'ex amante Marisa, da cui ha avuto un'altra figlia. Dopo un
incontro casuale, durante la ricerca di una casa in affitto, Domenico realizza
di avere incontrato due poveracci come lui e propone ad Ulisse e Fulvio di
andare a vivere insieme per dividere le spese di un appartamento. Inizia così
la loro convivenza e la loro amicizia.
Regia: Carlo Verdone
Sceneggiatura: Carlo Verdone, Pasquale Plastino,
Maruska Albertazzi
Attori: Carlo Verdone, Micaela Ramazzotti,
Pierfrancesco Favino, Marco Giallini, Diane Fleri, Nicoletta Romanoff, Nadir
Caselli, Valentina D’Agostino, Maria Luisa De Crescenzo, Giulia Greco,
Gabriella Germani, Roberta Mengozzi
Fotografia: Danilo Desideri
Montaggio: Antonio Siciliano
Musiche: Gaetano Curreri, Fabio Liberatori
Critica:
Senza esplicite
prese di posizione, ma con uno sguardo che non tradisce più la sua abituale
fascinazione nei confronti di un femminile imperscrutabile, Verdone sfodera i
suoi artigli da gattone e dissacra veri e falsi miti squisitamente
contemporanei, a cominciare dalla proverbiale carità cristiana e dalla cieca
fiducia in uno stato assistenzialista. Come i padri della grande commedia
all’italiana, da Steno a Scola passando per Monicelli, riesce poi nella
encomiabile missione di rendere divertenti, a volte perfino spassose,
situazioni di cui non c’è nulla da ridere. (Carola Proto)
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