da: Il Fatto Quotidiano
L’estate scorsa, commemorando a Palermo il
ventennale della strage di Capaci, Mario Monti dichiarò: “Nessuna ragion di
Stato può giustificare ritardi nella ricerca della verità: i pezzi mancanti
vanno cercati fino in fondo”. Poi però fece l’opposto. Lui e il Pdl, il Pd e il
Centro che lo sostengono.
L’altro giorno, nel tentativo disperato di
influenzare la camera di consiglio della Corte d’appello di Milano sul
sequestro Abu Omar, il governo ha sollevato un conflitto di attribuzioni alla
Consulta contro la Cassazione, che a settembre aveva annullato il
proscioglimento dell’ex capo del Sismi Pollari e del vice Mancini, accusandola di
avere aggirato il segreto di Stato posto dai governi di destra e di sinistra e
di avere così leso le “attribuzioni costituzionali” della Presidenza del
Consiglio.
Dove siano nella Costituzione le “attribuzioni” che autorizzano un
governo a far sequestrare, deportare e torturare un cittadino egiziano, non è
dato sapere. Nella supercazzola della solita Avvocatura dello Stato, si legge
che “il presidente del Consiglio rivendica l’integrità delle proprie
attribuzioni costituzionali nell’esercizio dell’attività politica volta alla
tutela della sicurezza dello Stato che, in relazione al caso di specie, si è
concretata nell’apposizione del segreto di Stato con riferimento ai rapporti
tra Servizi italiani e la Cia nonché agli interna corporis del Servizio, anche
in ordine al fatto storico del sequestro di Abu Omar”. Il tutto, si capisce, a
“tutela dei supremi valori dell’esistenza, integrità, essenza dello Stato
democratico”.
Par di sognare: per esistere, lo Stato consente alla Cia e ai
servizi italiani di sequestrare un capo religioso islamico, peraltro sotto
inchiesta alla Procura di Milano e, quando i colpevoli vengono scoperti, tenta
di salvarli col segreto di Stato. Per fortuna i giudici non si sono lasciati
intimidire e, nel-l’appello-bis,
hanno condannato Pollari e Mancini. Ma ancora
una volta il governo si schiera contro la verità e la legalità, e nessuno dei
partiti che l’appoggiano, neanche quello che tappezza il Paese di manifesti per
un’“Italia giusta”, dice una parola.
È il replay di quanto è accaduto sulla
trattativa Stato-mafia, con le interferenze del Quirinale nelle indagini su
richiesta di Mancino, subito coperte da governo e maggioranza. Tant’è che Di
Pietro è stato espulso dal centrosinistra per averle criticate e Ingroia s’è
visto negare ogni tentativo di dialogo per averle smascherate. Ieri, sentito
come teste al processo, il sottosegretario ai Servizi Gianni De Gennaro ha
dichiarato di non ricordare “pericoli di attentati a Mannino” nel ’92 dopo il
delitto Lima, né allarmi sul ritiro del 41-bis ai mafiosi nel ’93. Deve
avere una memoria davvero labile, perché i pericoli per Mannino e altri
politici li svelarono prima un rapporto del capo della polizia Parisi il
16.3.92 e poi lo stesso Mannino in un’intervista all’Espresso l’8.7.92. Quanto
alle manovre contro il 41-bis, le denunciò proprio De Gennaro, capo della Dia,
il 10.8.93: “L’eventuale revoca anche parziale del 41-bis potrebbe
rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato intimidito dalla stagione
delle bombe”. Un mese dopo lo Sco rivelò che le stragi miravano “a una sorta di
trattativa con lo Stato per la soluzione dei principali problemi che affliggono
Cosa Nostra: il carcerario e il pentitismo”. Vent’anni dopo le stragi e dieci
dopo il sequestro Abu Omar, lo Stato deve scegliere: o rivendica le trattative
con la mafia, le complicità nelle stragi e nei sequestri che copre da sempre,
se ne assume tutte le responsabilità ed evita che a pagare per quei delitti e
quelle bugie siano soltanto gli uomini dei servizi che eseguirono ordini infami;
oppure i suoi rappresentanti la smettono di lacrimare in favore di telecamera
agli anniversari invocando “tutta la verità”. “Il miglior disinfettante –
diceva il giurista americano Louis Brandeis – è la luce del sole e il miglior
poliziotto è la luce elettrica”.
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