Quando
Oscar disse: «Voglio essere ricordato come una brava persona»
La
notizia del risveglio, oggi: l'atleta arrestato, ha ucciso la sua fidanzata,
nella sua casa in Sud Africa
di Ferdinando
Cotugno
La notizia del risveglio, oggi: Oscar
Pistorius arrestato, ha ucciso la sua fidanzata, nella sua casa a Pretoria, in
Sud Africa. Sono le prime ricostruzioni, non so che pensare, leggo agenzie su
agenzie, non riesco a trovare una spiegazione. Il dramma è di Reeva, uccisa di
notte a 30 anni da quattro colpi di pistola. Ma la notizia mi ha devastato,
personalmente, perché ho conosciuto Oscar Pistorius. Ed è più difficile quando
quello a cui vuoi bene è il colpevole, quello che ha sparato e ucciso.
Ho intervistato Pistorius per Vanity Fair, poche settimane prima dell’Olimpiade di Londra. Facendo questo lavoro, si conoscono tante persone. Ma quella a Pistorius è stata una delle mie interviste preferite. Ero tornato a casa raccontando a tutti, e cercando di mettere nell’articolo la sensazione di aver conosciuto un essere umano meraviglioso. Ora che tutto è crollato, mi sento quasi responsabile. Quel giorno, Oscar Pistorius aveva appena saputo che avrebbe potuto partecipare a Londra 2012 con i normodotati (che parola orribile), nonostante i dubbi sulle sue gambe in fibra di carbonio. Era felice come un bambino. Ed era festeggiato come un bambino, con tanto di torta, nell’albergo di Gemona del Friuli, dove l’ho incontrato e dove si allena diversi mesi l’anno. Aspettandolo, avevo scambiato due chiacchiere con una cameriera dell’hotel, che avrebbe potuto essere sua madre. Non sapeva
Mi aveva colpito una frase di Oscar: «Io non voglio essere ricordato come un grande atleta, ma come una brava persona». I suoi idoli non sono mai stati i più veloci, ma i più gentili. Preferiva mettere colleghi e rivali non in ordine di record e medaglie ma di umanità. «Che senso ha una bacheca piena di medaglie, se poi un ragazzino ti ricorderà per non avergli fatto un autografo perché andavi di fretta?». Per questo mi ha raccontato di ammirare Valentino Rossi. «Un campione sorridente, anche quando non vince». Che senso ha quella bacheca, oggi, se Reeva non c’è più e tu l’hai uccisa?
E poi sono sicuro che in queste ore terribili, Oscar starà pensando a sua madre, la donna che ha impedito che crescesse vittima delle sue malformazioni, che gliele ha trasformate in una forza. «Mamma mi diceva: mettiti le gambe che usciamo. Come se fossero scarpe». A Oscar le gambe furono amputate quando aveva undici mesi. Quel giorno Sheila Pistorius gli scrisse una lettera: «Il perdente non è chi perde, il perdente è chi si siede e guarda». Oscar non è mai stato seduto, ma Sheila non l’ha visto vincere. Perché è morta quando lui era adolescente. Mi ha raccontato che era il suo grande rimpianto, non averle mai potuto regalare una delle sue medaglie, che in fondo era la ragione di tutto per lui. Per lei avrebbe voluto laurearsi in architettura, una volta finita la carriera da atleta.
C’è un’altra frase che mi è tornata in
mente. È uno dei tatuaggi di Pistorius, ce l’ha dietro la schiena e
tradotto suona come «Io quindi corro
così; non in modo incerto; combatto, ma non come chi batte l’aria; anzi, tratto duramente il mio corpo e lo
riduco in schiavitù, perché non avvenga che, dopo aver predicato agli altri, io
stesso sia squalificato». È una lettera
di San Paolo ai Corinzi. Ed era la lettera di Oscar al mondo. Per me aveva
significato: «Sii la versione migliore possibile di te stesso, a qualunque
costo». Ora tutto questo non c’è più, e in qualche modo mi sento orfano di
Pistorius. E forse non sono il solo.
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