Alcuni film in uscita in questo fine
settimana. Il dettaglio del cast e della trama cliccando "continua a leggere"
da: Mymovies
J. Edgar di Clint Eastwood
La Talpa di Tomas Alfredson
Benvenuti al Nord di Luca Miniero
L’industriale di Giuliano Montaldo
J.
Edgar
Film di Clint Eastwood. Con Leonardo Di
Caprio, Naomi Watts, Armie Hammer, Josh Lucas, Judi Dench, Damon Herriman,
Nominato capo dell'FBI dal Presidente Calvin Coolidge, J. Edgar Hoover è
un giovane uomo ambizioso nell'America proibizionista. Figlio di un padre
debole e di una madre autoritaria, Edgar è ossessionato dalla sicurezza del
Paese e dai criminali che la minacciano a suon di bombe e volantini. Avviata
una lotta senza esclusione di colpi contro bolscevichi, radicali, gangster e
delinquenti di ogni risma, il direttore federale attraversa la storia americana
costruendosi una reputazione irreprensibile e inattaccabile. A farne le spese
sono i suoi nemici, reali o supposti, tutti ugualmente ricattabili dai dossier
confidenziali raccolti, archiviati e custoditi da Helen Gandy, fedele
segretaria che rifiutò il suo corteggiamento e ne sposò la causa. Quarantotto
anni di ‘azioni' (il)legali, otto presidenti e un sentimento dissimulato dopo,
quello per il collaboratore Clyde Tolson, Edgar detterà la sua biografia e le
sue imprese: la rivoluzione investigativa, la consolidazione del Bureau, la
‘deportazione' dei comunisti, la cattura di John Dillinger e George Kelly, le
indagini lecite sui rapitori di Baby Lindbergh e quelle illecite sulle Pantere
Nere o sul Movimento per i Diritti Civili di Martin Luther King. Una vita
romanzata e smascherata al tramonto dalla coscienza di Tolson e
dall'incoscienza del peggiore dei presidenti.
Il mondo è imperfetto e Clint Eastwood lo ribadisce ogni volta che può. Ad essere perfetto è il suo sguardo sul mondo, dove ancora una volta un criminale 'rapisce' un bambino e dove il bambino scomparso diventa l'immagine dell'innocenza di un Paese sulla soglia di una crisi. In J. Edgar, come in Changeling, a una mamma viene sottratto il figlio e la polizia è incapace di porvi rimedio. A indagare ci pensa lo zelante Edgar Hoover, ansioso di accreditare il valore dell'FBI e di raggiungere la notorietà, a cui ha sacrificato affetti e vita privata. Perché Edgar è un disadattato ossessionato dalla carriera e dalla conservazione del ruolo, che fa giustizia dei criminali e assicura alla giustizia il presunto colpevole del primo kidnapping della storia americana. Ma Edgar è pure la protervia del potere poliziesco e politico contro cui combatteva la madre ostinata di Angelina Jolie, è il distintivo che giustifica qualsiasi nefandezza, intercettazione, pestaggio, è l'uomo che spia, imbroglia e ricatta amici e avversari, è l'America paranoica che combatte i propri nemici diventando come loro e che disarma i 'radicali' impugnando le armi del terrore e condannandosi a morte. Edgar Hoover secondo Eastwood è ancora il più grande talento recitativo nazionale, il protagonista di un racconto che affonda le sue radici nei miti fondativi della cultura e dell'immaginario americano. È il doppio di James Cagney, interprete di un G-Man e di un cinema che celebra i metodi scientifici dell'FBI e l'abnegazione dei suoi agenti contro il nemico pubblico, incarnato dallo stesso attore e incarnazione di un individualismo gangsteristico senza futuro. Leonardo DiCaprio, già interprete per Scorsese di una megalomane icona del sogno americano (The Aviator), presta il volto e la ‘maschera' a un uomo distaccato che concepisce ogni relazione come una partita a carte, abituato a soffocare ogni passione e attento a evitare di compromettersi con le donne e con la vita. Eastwood lo chiude in un limbo di sentimenti raggelati lungo il contraddittorio confine tra legalità e illegalità, lasciando che lo spettatore, nel modo del cecchino di Un mondo perfetto, 'spari' su quello che crede di aver visto negli andirivieni cronologici. Nel percorso di imbruttimento, invecchiamento e corruzione a cui il regista sottopone il protagonista, si inserisce con un bacio rubato e un ballo mancato un inedito sentimento di pietas che inverte la direzione del film. Se Changeling avviava una storia d'amore che si faceva politica nel suo svilupparsi, J. Edgar impone il dramma emozionale tra Hoover e Tolson sugli aspetti politici, assicurando al protagonista l'empatia del pubblico e insieme rimanendo fedele alla sua identità originaria. Con l'onestà estetica di chi non bara e non trucca perché sa che il trucco è già compreso nel mondo e nelle sue maschere, (s)mascherate da quelle senili di Leonardo DiCaprio, Armie Hammer e Naomi Watts, Clint Eastwood gira in costume una vicenda politica 'contemporanea'. Dentro una biografia emotivamente riservata e reticente, dietro una relazione a proprio agio negli interni, dove l'imbarazzo e la crescente attrazione divengono palpabili, dove un fazzoletto si fa vettore emotivo e fisico di una passione intercettabile, l'autore americano dimostra l'acume politico del suo cinema. Un cinema alla ricerca di un bagliore di innocenza nel cuore nero dell'America.
Il mondo è imperfetto e Clint Eastwood lo ribadisce ogni volta che può. Ad essere perfetto è il suo sguardo sul mondo, dove ancora una volta un criminale 'rapisce' un bambino e dove il bambino scomparso diventa l'immagine dell'innocenza di un Paese sulla soglia di una crisi. In J. Edgar, come in Changeling, a una mamma viene sottratto il figlio e la polizia è incapace di porvi rimedio. A indagare ci pensa lo zelante Edgar Hoover, ansioso di accreditare il valore dell'FBI e di raggiungere la notorietà, a cui ha sacrificato affetti e vita privata. Perché Edgar è un disadattato ossessionato dalla carriera e dalla conservazione del ruolo, che fa giustizia dei criminali e assicura alla giustizia il presunto colpevole del primo kidnapping della storia americana. Ma Edgar è pure la protervia del potere poliziesco e politico contro cui combatteva la madre ostinata di Angelina Jolie, è il distintivo che giustifica qualsiasi nefandezza, intercettazione, pestaggio, è l'uomo che spia, imbroglia e ricatta amici e avversari, è l'America paranoica che combatte i propri nemici diventando come loro e che disarma i 'radicali' impugnando le armi del terrore e condannandosi a morte. Edgar Hoover secondo Eastwood è ancora il più grande talento recitativo nazionale, il protagonista di un racconto che affonda le sue radici nei miti fondativi della cultura e dell'immaginario americano. È il doppio di James Cagney, interprete di un G-Man e di un cinema che celebra i metodi scientifici dell'FBI e l'abnegazione dei suoi agenti contro il nemico pubblico, incarnato dallo stesso attore e incarnazione di un individualismo gangsteristico senza futuro. Leonardo DiCaprio, già interprete per Scorsese di una megalomane icona del sogno americano (The Aviator), presta il volto e la ‘maschera' a un uomo distaccato che concepisce ogni relazione come una partita a carte, abituato a soffocare ogni passione e attento a evitare di compromettersi con le donne e con la vita. Eastwood lo chiude in un limbo di sentimenti raggelati lungo il contraddittorio confine tra legalità e illegalità, lasciando che lo spettatore, nel modo del cecchino di Un mondo perfetto, 'spari' su quello che crede di aver visto negli andirivieni cronologici. Nel percorso di imbruttimento, invecchiamento e corruzione a cui il regista sottopone il protagonista, si inserisce con un bacio rubato e un ballo mancato un inedito sentimento di pietas che inverte la direzione del film. Se Changeling avviava una storia d'amore che si faceva politica nel suo svilupparsi, J. Edgar impone il dramma emozionale tra Hoover e Tolson sugli aspetti politici, assicurando al protagonista l'empatia del pubblico e insieme rimanendo fedele alla sua identità originaria. Con l'onestà estetica di chi non bara e non trucca perché sa che il trucco è già compreso nel mondo e nelle sue maschere, (s)mascherate da quelle senili di Leonardo DiCaprio, Armie Hammer e Naomi Watts, Clint Eastwood gira in costume una vicenda politica 'contemporanea'. Dentro una biografia emotivamente riservata e reticente, dietro una relazione a proprio agio negli interni, dove l'imbarazzo e la crescente attrazione divengono palpabili, dove un fazzoletto si fa vettore emotivo e fisico di una passione intercettabile, l'autore americano dimostra l'acume politico del suo cinema. Un cinema alla ricerca di un bagliore di innocenza nel cuore nero dell'America.
La
talpa
Film di
Tomas Alfredson. Con Gary Oldman, Kathy Burke, Benedict Cumberbatch, David
Dencik, Colin Firth
Londra, 1973. Control, il capo del servizio segreto inglese, è costretto
alle dimissioni in seguito all’insuccesso di una missione segreta in Ungheria,
durante la quale ha perso la copertura e la vita l’agente speciale Prideaux.
Con Control se ne va a casa anche il fido George Smiley, salvo poi venir
convocato dal sottogretario governativo e riassunto in segreto. Il suo compito
sarà scoprire l’identità di una talpa filosovietica, che agisce da anni
all’interno del ristretto numero degli agenti del Circus: quattro uomini che
Control ha soprannominato lo Stagnaio, il Sarto, il Soldato e il Povero.
John Le Carré, prima di diventare uno dei massimi esponenti della
letteratura di spionaggio, è stato dipendente del MI6 e ha effettivamente visto
la propria carriera interrompersi a causa di un agente doppiogiochista al soldo
del KGB. Di questa trasposizione per il grande schermo Le Carrè stesso ha dichiarato:
“sono orgoglioso di aver consegnato ad Alfredson il mio materiale, ma ciò che
ne ha realizzato è meravigliosamente suo”, e non potrebbe esserci verità più
lampante e gradita.
Meno rispondente, forse, al sapore del libro ricreato in sede televisiva
trent’anni fa con un grande Alec Guinnes e il plauso incondizionato
dell’autore, la Talpa
di Alfredson soffrirebbe dentro qualsiasi schermo più piccolo di
quello cinematografico. Perché è di un gran film che si tratta, di quel genere
di film che è reso tale dalla perfezione delle parti e da qualcosa di più.
Visivamente impeccabile -elegante e vivido al punto che si sentono l’odore della polvere sui mobili, il leggero graffiare del tessuto dei cappotti, il fumo delle sigarette, l’umido, i sospiri-, il film ha una delicatezza che non si direbbe possibile sulla carta, parlato moltissimo com’è, da attori dal peso specifico enorme (dei quali il recentemente oscarizzato Colin Firth è in fondo il meno impressionante).
Lo Smiley di Gary Oldman è il più leggero ed immenso, col passo felpato e il cuore gonfio, non si sa se più fragile o più terrorizzante, impossibile cioè da “catturare” in un’impressione univoca. Qualcuno che confonde: un virtuoso del proprio mestiere di segreto ambulante.
Ma il vero valore aggiunto del film, il tocco che quasi riscrive il genere di appartenenza di questa pellicola, è il suo cuore sentimentale, addirittura romantico. Trattenuto, imploso, mostrato per piccoli indizi, quasi fossero distrazioni, il sentimento amoroso (tragico ma vitalissimo) è ciò che scalda il film di Alfredson da cima a fondo: il punto debole che fa la sua forza, il dettaglio che fa la sua grandezza.
Visivamente impeccabile -elegante e vivido al punto che si sentono l’odore della polvere sui mobili, il leggero graffiare del tessuto dei cappotti, il fumo delle sigarette, l’umido, i sospiri-, il film ha una delicatezza che non si direbbe possibile sulla carta, parlato moltissimo com’è, da attori dal peso specifico enorme (dei quali il recentemente oscarizzato Colin Firth è in fondo il meno impressionante).
Lo Smiley di Gary Oldman è il più leggero ed immenso, col passo felpato e il cuore gonfio, non si sa se più fragile o più terrorizzante, impossibile cioè da “catturare” in un’impressione univoca. Qualcuno che confonde: un virtuoso del proprio mestiere di segreto ambulante.
Ma il vero valore aggiunto del film, il tocco che quasi riscrive il genere di appartenenza di questa pellicola, è il suo cuore sentimentale, addirittura romantico. Trattenuto, imploso, mostrato per piccoli indizi, quasi fossero distrazioni, il sentimento amoroso (tragico ma vitalissimo) è ciò che scalda il film di Alfredson da cima a fondo: il punto debole che fa la sua forza, il dettaglio che fa la sua grandezza.
Benvenuti
al Nord
Film di Luca Miniero. Con Claudio Bisio,
Alessandro Siani, Angela Finocchiaro, Valentina Lodovini, Nando Paone, Giacomo
Rizzo, Nunzia Schiano
Diretto sempre dal regista napoletano Luca Miniero, il sequel del
fortunato Benvenuti al
Sud conferma il cast del primo episodio aggiungengovi
alcune interessanti new entry. Tra queste si segnala Paolo Rossi, nel ruolo di
un imprenditore senza scrupoli. Il sequel - secondo Miniero - era quasi
"obbligatorio", se non altro perché serviva a "completare il
tema, mostrando l'altra faccia del dualismo nazionale". Le riprese
coinvolgono Castellabate (location principale del successo dello scorso
gennaio), Milano e un piccolo paese del Nord Italia.
Sono passati circa due anni. I nostri amici, Alberto e Mattia, sono in crisi con le rispettive mogli. Silvia (Angela Finocchiaro) detesta Milano a causa delle polveri sottili e dell’ozono troposferico e accusa Alberto (Claudio Bisio) di pensare solo al lavoro e poco a lei. Così, per risvegliare l’amore, prende una seconda casa in montagna dove trascorrere romantici weekend. Peccato che Alberto abbia accettato di guidare un progetto pilota delle Poste che lo impegnerà per un anno, sabati compresi. Intanto Mattia (Alessandro Siani), il solito irresponsabile, vive con la moglie Maria (Valentina Lodovini) e il figlio Edinson a casa della madre, lavora poco e proprio non riesce a pronunciare la parola “mutuo”. Per questo Maria lo lascia, costringendolo a mille sceneggiate per riconquistarla. Fallito ogni tentativo, Mattia suo malgrado finirà a lavorare a Milano, incastrato dall’ingenuità dei suoi amici che lo affidano alle cure di Alberto. L'impatto del napoletano con la città sarà terribile: partito con un giubbotto fendinebbia il povero Mattia finirà col rovinare la sua vita e quella dell’amico Alberto. Ma, piano piano, i pregiudizi inizieranno a sciogliersi…
Sono passati circa due anni. I nostri amici, Alberto e Mattia, sono in crisi con le rispettive mogli. Silvia (Angela Finocchiaro) detesta Milano a causa delle polveri sottili e dell’ozono troposferico e accusa Alberto (Claudio Bisio) di pensare solo al lavoro e poco a lei. Così, per risvegliare l’amore, prende una seconda casa in montagna dove trascorrere romantici weekend. Peccato che Alberto abbia accettato di guidare un progetto pilota delle Poste che lo impegnerà per un anno, sabati compresi. Intanto Mattia (Alessandro Siani), il solito irresponsabile, vive con la moglie Maria (Valentina Lodovini) e il figlio Edinson a casa della madre, lavora poco e proprio non riesce a pronunciare la parola “mutuo”. Per questo Maria lo lascia, costringendolo a mille sceneggiate per riconquistarla. Fallito ogni tentativo, Mattia suo malgrado finirà a lavorare a Milano, incastrato dall’ingenuità dei suoi amici che lo affidano alle cure di Alberto. L'impatto del napoletano con la città sarà terribile: partito con un giubbotto fendinebbia il povero Mattia finirà col rovinare la sua vita e quella dell’amico Alberto. Ma, piano piano, i pregiudizi inizieranno a sciogliersi…
L’industriale
Film di Giuliano Montaldo. Con Pierfrancesco
Favino, Carolina Crescentini, Eduard Gabia, Elena Di Cioccio, Elisabetta
Piccololini, Andrea Tidona, Mauro Pirovano, Roberto Alpi
Proprietario di una fabbrica ad un passo dal fallimento, l'ingegnere
quarantenne Nicola Ranieri non può più ottenere prestiti bancari per tamponare
la situazione. Se la procedura di una salvifica join venture con una compagnia
tedesca è sempre più incerta, per caparbietà e orgoglio rifiuta anche
quell'aiuto economico della ricca suocera che potrebbe salvarlo. Mentre gli
operai dimostrano comprensibile preoccupazione per il loro futuro, la moglie
Laura appare sempre più distante. L'industriale comincia così a nutrire dubbi
sulla fedeltà della consorte e si mette a pedinare ogni sua mossa.
A tre anni da I demoni di San Pietroburgo, ultimo lungometraggio di finzione di una carriera registica cinquantennale, Giuliano Montaldo torna al cinema con un lavoro teso, suggestivo e azzeccato nella sua adesione alla storia contemporanea del Paese. L'Italia mostrata è, infatti, quella della grande crisi economica degli ultimi anni, terra degli imprenditori travolti dal fallimento e del denaro che brucia. Calato nella notevole fotografia di Arnaldo Catinari – plumbea, fredda, grigissima – questo racconto che conferma l'impegno civile dell'autore è dotato di apprezzabili evoluzioni, di graffianti riavvii e precise notazioni in grado di tenere desta l'attenzione fino all'ambiguo finale. Proprio nei momenti in cui pare afflosciarsi, la sceneggiatura del cineasta e di Andrea Purgatori trova, invece, nuovi sbocchi e inaspettate intonazioni (la gag dei ristoratori giapponesi) fino a quella coda gialla che dà un volto completamente differente alla storia così come l'avevamo immaginata. L'aspetto economico – pubblico (la vicenda della fabbrica) e quello affettivo – privato (l'allontanamento della moglie) avvalorano insieme il totale fallimento del personaggio ben interpretato da Pierfrancesco Favino, cui sfugge il divario tra l'avventuroso passato del genitore e il suo spietato presente. Si tratta di una disfatta che coinvolge inoltre la figura paterna, assenza – presenza dietro a molti atteggiamenti di Nicola: nell'operaio più anziano della fabbrica o nell'amico imprenditore che incontra in piscina c'è, nemmeno troppo nascosto, il riverbero di un padre cui non vuole o non può dare delusioni. Nonostante qualche goffaggine di troppo e alcuni stereotipi, specialmente nei caratteri secondari, il film di Montaldo ha il merito di far riflettere e di intrattenere, nella memorabile cornice di una Torino piovigginosa, livida e quasi priva di colore. Il critico cinematografico Steve Della Casa interpreta uno degli operai.
A tre anni da I demoni di San Pietroburgo, ultimo lungometraggio di finzione di una carriera registica cinquantennale, Giuliano Montaldo torna al cinema con un lavoro teso, suggestivo e azzeccato nella sua adesione alla storia contemporanea del Paese. L'Italia mostrata è, infatti, quella della grande crisi economica degli ultimi anni, terra degli imprenditori travolti dal fallimento e del denaro che brucia. Calato nella notevole fotografia di Arnaldo Catinari – plumbea, fredda, grigissima – questo racconto che conferma l'impegno civile dell'autore è dotato di apprezzabili evoluzioni, di graffianti riavvii e precise notazioni in grado di tenere desta l'attenzione fino all'ambiguo finale. Proprio nei momenti in cui pare afflosciarsi, la sceneggiatura del cineasta e di Andrea Purgatori trova, invece, nuovi sbocchi e inaspettate intonazioni (la gag dei ristoratori giapponesi) fino a quella coda gialla che dà un volto completamente differente alla storia così come l'avevamo immaginata. L'aspetto economico – pubblico (la vicenda della fabbrica) e quello affettivo – privato (l'allontanamento della moglie) avvalorano insieme il totale fallimento del personaggio ben interpretato da Pierfrancesco Favino, cui sfugge il divario tra l'avventuroso passato del genitore e il suo spietato presente. Si tratta di una disfatta che coinvolge inoltre la figura paterna, assenza – presenza dietro a molti atteggiamenti di Nicola: nell'operaio più anziano della fabbrica o nell'amico imprenditore che incontra in piscina c'è, nemmeno troppo nascosto, il riverbero di un padre cui non vuole o non può dare delusioni. Nonostante qualche goffaggine di troppo e alcuni stereotipi, specialmente nei caratteri secondari, il film di Montaldo ha il merito di far riflettere e di intrattenere, nella memorabile cornice di una Torino piovigginosa, livida e quasi priva di colore. Il critico cinematografico Steve Della Casa interpreta uno degli operai.
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