lunedì 16 gennaio 2012

Mediaset, Pier Silvio Berlusconi: "mai avuto regali e favoritismi dal governo"..di papà


L’onestà mentale non è una virtù di famiglia. La mancata concorrenza non è una presunzione, è una realtà. Mediaset non va tutelata. Va trattata come un’azienda che produce un servizio e dà occupazione. Punto e stop.
Se Pier Silvio Berlusconi vuole che Mediaset sia trattata per come e quanto vale sul mercato si comporti da imprenditore e non da figlio di un ex presidente del consiglio che ha sempre fatto gli interessi propri e quelli della sua azienda: Mediaset.
Se Pier Silvio Berlusconi, oltre a ridurre costi non è in grado di far crescere con progetti adeguati l’azienda di famiglia, si scelga dei dirigenti in grado di apportare nuovi impulsi. La tutela di un’azienda quotata in Borsa deriva dai prodotti che crea, da come li crea, da come li vende. Tutto questo, in un contesto normativo che ne garantisca diritti, che effettui controlli, che non preveda disparità e difformità.

da: La Stampa

"Spero che Passera prenda la decisione più giusta"
di Luca Ubaldeschi

C’è il discorso economico: «Certo, anche Mediaset sente la crisi, ma stiamo facendo di tutto per superarla bene». E c'è quello di sistema, che in una fase politica nuova porta Pier Silvio Berlusconi a lanciare un messaggio, anche al governo: «Basta con le polemiche sulla presunta mancanza di concorrenza, basta giudicarci con la lente strumentale della politica, questa azienda è una realtà industriale leader nel suo settore e in un momento di crisi come questo andrebbe semmai salvaguardata, non indebolita».

Seduto al tavolo della sala riunioni a Cologno Monzese, davanti a una parete con 18 schermi che rilanciano le immagini dell'universo televisivo italiano, il vice presidente di Mediaset affronta i due temi partendo dall' analisi dei conti. «Siamo un'azienda solida e dinamica. Solida perché attraversiamo questa fase terribile per l'economia con ottime basi in termini di prodotto e di risultati. Dinamica per quanto di nuovo continuiamo a fare e perché la televisione non è un mezzo vecchio, ma vivo e sano: cresce il numero di persone che la guardano e cresce anche il tempo che le dedicano».

Però gli utili 2011 sono in calo, la pubblicità è scesa, il titolo in Borsa ha perso metà del suo valore in un anno. Non è troppo ottimista?
«Mettiamola così: in un anno di grave crisi come il 2011
prevediamo di chiudere il bilancio con oltre 200 milioni di utile. E i nostri ricavi pubblicitari vanno molto meglio della media del mercato. Detto questo, operiamo in un settore ciclico e come tutti gli editori siamo colpiti dal calo dei consumi. Per questo abbiamo avviato un profondo lavoro di efficienza che ci porterà in un triennio a diminuire i costi di almeno 250 milioni l'anno. I primi effetti si vedranno nel 2012».

Su che cosa risparmierete?
«Stiamo rivedendo tutti i processi di spesa, cercando efficienza nelle grandi e piccole cose: ad esempio rinegozieremo i contratti dei diritti tv. I programmi dovranno costare meno».

Ci saranno anche tagli ai compensi delle star?
«Parliamo di risorse importanti per Mediaset, ma è inevitabile: chi ha il privilegio di lavorare in tv, deve capire che le cose sono cambiate».

Non si rischia di impoverire anche l'offerta dei contenuti?
«Esattamente il contrario: il prodotto è la nostra ricchezza. Stiamo pensando a programmi di intrattenimento e fiction di nuova generazione: di qualità, ma più sostenibili. La manovra si basa su due punti cardine: non ridurremo il livello dei programmi e non toccheremo l'occupazione».

Ci sono state voci su un possibile nuovo amministratore delegato per Mediaset.
«Nessuna rivoluzione ai vertici. Giuliano Adreani, che è a capo della concessionaria Publitalia, in questa fase sta facendo un lavoro incredibile».

Si parla anche di contrasti tra lei e sua sorella Marina, presidente di Fininvest. Che cosa risponde?
«Rido, perché se c'è una persona al mondo con cui sono in simbiosi professionale oltre che personale è proprio Marina. Siamo una squadra».

Alla nascita del governo Monti, lei disse: «Se vince il buon senso, il nuovo esecutivo può essere per noi una boccata d'ossigeno». Poi il governo ha deciso di sospendere il «beauty contest» che avrebbe assegnato alcune frequenze digitali gratuitamente. Questo cambia il suo giudizio?
«Vede, pensare a un'asta non solo sarebbe ingiusto e iniquo, perché in tutta Europa si è proceduto con assegnazione gratuita. Ma sarebbe anche non realistico: per il business televisivo il vero problema non sono le frequenze, ma i pesanti investimenti per creare contenuti competitivi di livello. Lo dice il mercato, non noi».

Ma non crede che proprio in un periodo di sacrifici per tutti, sia giusto che quelle frequenze vengano pagate e non regalate?
«Intanto fino a oggi tutte le frequenze, vecchie e nuove, Mediaset le ha pagate. E ogni anno versiamo decine di milioni di canone di concessione. E poi perché crede che Sky si sia ritirata da una gara gratuita? Di certo ha pesato il fatto che oggi investire sulla tv free, vista la quantità di canali e di concorrenza, è estremamente rischioso. Il punto è che come imprenditori tutti noi abbiamo bisogno di regole certe».

Pensa che questa vicenda, con le dichiarazioni del ministro Passera, possa essere la spia di un cambio di clima per Mediaset, ora che al governo non c'è più suo padre?
«Il ministro Passera ha tanti problemi sul tavolo. Spero possa studiare il caso a fondo e poi prendere la decisione giusta. Ma al di là del governo, per ora il clima è lo stesso di prima».

In che senso?
«Da sempre si guarda a Mediaset con la lente distorta della politica, per cui per qualcuno questa azienda è il male assoluto. Capisco che tutto nasce da 17 anni di presenza in politica del nostro azionista, ma ora basta. Si valuti Mediaset per la grande impresa che è».

Scusi, è facile ora dire basta. Quei 17 anni sono stati utili a Mediaset.
«Ma andiamo. Mai avuto né regali, né favoritismi dal governo».

Anche senza riaprire il capitolo della legge Gasparri: ma l'aumento dell'Iva per la tv satellitare? I contributi all'acquisto dei decoder per il digitale terrestre?
«Guardi, l'aumento dell'Iva era per tutte le pay tv, e ha colpito più Mediaset Premium che era in fase di start up, in concorrenza con il monopolista satellitare. Gli incentivi per i decoder erano a favore dei cittadini, obbligati per legge a cambiare tecnologia per guardare la tv».

Ma voi ne avete beneficiato.
«Mediaset non ha mai ricevuto nessun contributo statale. Mai. Sarebbe ora fosse vista per quello che è davvero, un gruppo che dà all'Italia una delle poche leadership europee che le rimane, quella nella tv commerciale, un primato conquistato rischiando e investendo tantissimo».

E anche guadagnando molto.
«Certo, e meno male. Mediaset è un' azienda sana partita da zero, quotata in Borsa, che versa centinaia di milioni di tasse e continua a innovare. Pensi solo agli ultimi anni: con Premium abbiamo rotto il monopolio della tv pay offrendo alle famiglie un'alternativa a prezzi più convenienti; abbiamo creato il primo gruppo tv spagnolo… Mi fa ridere, poi, sentire ancora parlare di duopolio e mancanza di concorrenza. In pochi anni in Italia siamo arrivati a oltre 200 canali. La verità è che nel nostro Paese nel settore tv c'è tantissima concorrenza. E' un dato oggettivo».

Si fa paladino del protezionismo, proprio ora che si discute di settori aperti e liberalizzazioni?
«Al contrario, dico solo che il settore tv è già liberalizzato. Ben venga la concorrenza, ma non deve essere creata in maniera dirigista snaturando le leggi di mercato. L'hanno fatto in Spagna, assegnando due nuove licenze per tv generaliste, ma Zapatero ha poi dovuto fare marcia indietro e favorire nuove concentrazioni per non far fallire tutto il settore».

Questo vuol dire che il governo non deve sognarsi di mettervi un tetto agli spot?
«Tetti restrittivi? In un momento in cui per lo sviluppo ovunque si invocano liberalizzazioni? In Italia regole che vincolano la pubblicità ci sono già e rispecchiano norme europee. Spezzettare il mercato artificialmente e solo per motivi politici indebolirebbe tantissimo la tv italiana, sia come industria sia per ricchezza di offerta. Ecco, non danneggiamo un settore cruciale per l'economia e l'identità del Paese, un settore che produce informazione, cultura e posti di lavoro».


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