da: La
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Poliziotti al cinema, il male di vivere
Escono due film sulle difficoltà di contenere la violenza urbana: "Acab" di Sollima e "Polisse" di Maiwenn
di Fulvia Caprara
ACAB
Dagli stadi al G8 tre amici attraverso l’Italia oscura
Dagli stadi al G8 tre amici attraverso l’Italia oscura
Celerini
come alunni esemplari della scuola dell’odio, all’ultimo posto nell’ordine
gerarchico della Polizia, detestati in uguale misura dai tifosi indiavolati che
trasformano gli stadi in teatri di guerra, dai cittadini indigenti costretti ad
abbandonare le case occupate, dai rom che vivono nei campi nomadi, dai figli
cresciuti senza guida, dalle mogli che ne sperimentano, tra le mura domestiche,
tutta la carica di aggressività e insoddisfazione. Tratto dal romanzo omonimo
di Carlo Bonini (Einaudi Stile libero), diretto dall’esordiente Stefano
Sollima, Acab arriva nelle sale (venerdì, in 300 copie, 01Distribution),
sull’onda delle polemiche on-line (se ne parla da settimane, anche se, fino a
ieri, nessuno l’ha visto) e in attesa di quelle che potrebbero scoppiare, visto
il tema caldo, affrontato di petto: « Acab non è solo un film sui
celerini - dice il regista -, usiamo questi personaggi per raccontare l’odio
che attraversa la società in cui viviamo».
Su di loro, ma evidentemente su tutto un Paese in preda all’escalation della violenza, pesano le ombre di fatti realmente accaduti, citati con chiarezza. Dal G8 di Genova, nel 2001, alla morte dell’ispettore Filippo Raciti, il 2 febbraio del 2007, lo stesso anno dell’aggressione a Giovanna Reggiani, violentata e uccisa da un romeno, e della scomparsa del tifoso laziale Gabriele Sandri, ammazzato dal colpo sparato dall’agente Luigi Spaccarotella: «Il film - dice Bonini - è assolutamente fedele allo spirito del libro. Il capovolgimento del punto di vista serve a rendere più complicata la rappresentazione della realtà, a fare i conti con una parte di noi che tendiamo a scacciare». Dentro i caschi e dietro gli scudi di Cobra (Pierfrancesco Favino), Negro (Filippo Nigro) e Mazinga (Marco Giallini) ci sono, dice Sollima, «uomini come gli altri, nessuno ha voluto fare un film pro o contro, nessuno viene assolto. Il Reparto Mobile viene usato come presidio e difesa, il potere si sottrae e manda avanti loro».
Pugni, sangue, vessazioni, ricatti e vendette incrociate. Una catena infinita, senza speranza, di cui i protagonisti sono anelli cruciali, uniti dall’unico valore di una malintesa fratellanza virile: «Non invidio la vita che fanno - dice Favino -. Penso che il loro atteggiamento giustizialista dipenda dal corporativismo, dall’abbandono da parte dello Stato e da un tipo di educazione civica che riguarda un po’ tutti gli italiani, sostenuta dall’accezione positiva del concetto di “furbizia” e dalla convinzione che difendere il proprio clan sia sempre giusto». Bonini ricorda che, se c’è un colpevole, «è lo Stato drammaticamente assente. La cosa che più mi ha impressionato, mentre raccoglievo le storie per il libro, è il grado di solitudine dei poliziotti». Dai diretti interessati, finora, non sono arrivate prese di posizione ufficiali: «Durante le riprese - dice il produttore Marco Chimenz di Cattleya - non abbiamo avuto rapporti con la Polizia, non ci hanno messo mezzi a disposizione, ma non hanno nemmeno ostacolato il film, insomma non c’è stato aperto ostruzionismo. Acab è stato visto da vari esponenti della Polizia, ci sono stati pareri personali, ma non ufficiali, sicuramente ci sarà dibattito. Alcuni hanno detto che rappresenta la realtà, altri, al contrario, che non lo fa affatto».
POLISSE
"Quella lotta impari per proteggere l’infanzia violata"
Dividere
la vita con le abiezioni più estreme, ascoltare ogni giorno, dalla mattina alla
sera, i racconti nauseanti dei bambini molestati, delle mogli vittime delle
aggressioni dei mariti, dei ragazzini obbligati a fare i ladri, delle
adolescenti che si prostituiscono per uno «smartphone». Certe volte si riesce a
resistere grazie alla battuta di un collega, a una risata inattesa, a un caffè
bevuto in compagnia. Altre, invece, il peso è insopportabile, e allora gli
equilibri esplodono, fino alle conseguenze più estreme. Premio della Giuria
all’ultimo Festival di Cannes, Polisse (e non «Police», in omaggio a un
classico errore di ortografia infantile), è un pugno nello stomaco che lascia
senza fiato, una cronaca asciutta, coerente, priva di qualunque artificio,
dell’attività quotidiana della Sezione Protezione Minori, il corpo di Polizia
che in Francia si occupa delle categorie sociali più fragili e indifese. La
regista Maiwenn, autrice della sceneggiatura con Emanuelle Bercot, è uno
splendido uragano di vitalità femminile. Alta, sottile, determinata, esigente:
«Mi è capitato di vedere in tv un documentario sulla Sezione Protezione Minori
che mi ha colpito profondamente, il giorno dopo ho chiamato il canale
televisivo dicendo che volevo contattare il regista per sapere come fare a
incontrare gli agenti della Sezione».
La forza di Polisse , sui nostri schermi dal 3 febbraio, distribuito da Lucky Red, sta nella capacità di ritrarre il fluire dell’esistenza, nell’assurdo alternarsi di orrore e quotidianità: «Volevo mostrare i poliziotti al lavoro, ma anche nel loro privato. Credo sia importante riuscire a trovare il lato comico, pure nei momenti più terribili, altrimenti la vita sarebbe insopportabile. Per i protagonisti di Polisse l’umorismo funziona da parafulmine. Prima di girare ho trascorso molto tempo con loro, ho visto che tendono a formare quasi un nucleo familiare, stanno insieme dalla mattina alla sera, spesso anche dopo il lavoro, talvolta, tra i membri del gruppo, si creano rivalità, oppure nascono storie d’amore». Maiwenn ha raccontato tutto spogliandosi di ogni preconcetto: «Non volevo giudicare, ho trovato poliziotti omofobi e razzisti, ma anche poliziotti come questi, dotati di profonda umanità, abituati a guadagnare poco, lavorando tutto il giorno, senza gli straordinari. Non sono persone perfette, provocano sentimenti ambivalenti, non si possono né adorare né detestare, solo comprendere».
Sul set, negli interrogatori più difficili, ricostruzioni di abusi e casi di pedofilia, c’erano attori bambini: «In Francia esiste un’istituzione governativa incaricata di proteggere i ragazzi che recitano, ho dovuto modificare più volte la sceneggiatura prima di ottenere la necessaria approvazione. Continuavano a guardarmi tutti con scarsa simpatia, ma io sono convinta che aiutare i minori significhi parlare di questi argomenti, non tenerli nascosti». La prova sta nelle dichiarazioni dei bambini ingaggiati per il film: «Dicevano di aver accettato la parte per solidarietà verso altri coetanei che avevano subito davvero quelle cose. Erano come piccoli militanti, e, più apparivano timidi nella vita reale, più avevano voglia di stare davanti alla macchina da presa».
La forza di Polisse , sui nostri schermi dal 3 febbraio, distribuito da Lucky Red, sta nella capacità di ritrarre il fluire dell’esistenza, nell’assurdo alternarsi di orrore e quotidianità: «Volevo mostrare i poliziotti al lavoro, ma anche nel loro privato. Credo sia importante riuscire a trovare il lato comico, pure nei momenti più terribili, altrimenti la vita sarebbe insopportabile. Per i protagonisti di Polisse l’umorismo funziona da parafulmine. Prima di girare ho trascorso molto tempo con loro, ho visto che tendono a formare quasi un nucleo familiare, stanno insieme dalla mattina alla sera, spesso anche dopo il lavoro, talvolta, tra i membri del gruppo, si creano rivalità, oppure nascono storie d’amore». Maiwenn ha raccontato tutto spogliandosi di ogni preconcetto: «Non volevo giudicare, ho trovato poliziotti omofobi e razzisti, ma anche poliziotti come questi, dotati di profonda umanità, abituati a guadagnare poco, lavorando tutto il giorno, senza gli straordinari. Non sono persone perfette, provocano sentimenti ambivalenti, non si possono né adorare né detestare, solo comprendere».
Sul set, negli interrogatori più difficili, ricostruzioni di abusi e casi di pedofilia, c’erano attori bambini: «In Francia esiste un’istituzione governativa incaricata di proteggere i ragazzi che recitano, ho dovuto modificare più volte la sceneggiatura prima di ottenere la necessaria approvazione. Continuavano a guardarmi tutti con scarsa simpatia, ma io sono convinta che aiutare i minori significhi parlare di questi argomenti, non tenerli nascosti». La prova sta nelle dichiarazioni dei bambini ingaggiati per il film: «Dicevano di aver accettato la parte per solidarietà verso altri coetanei che avevano subito davvero quelle cose. Erano come piccoli militanti, e, più apparivano timidi nella vita reale, più avevano voglia di stare davanti alla macchina da presa».
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