giovedì 26 gennaio 2012

Libia e Italia: i retroscena dell’incontro di Monti a Tripoli


da: Lettera 43

Libia, l'Italia rischia grosso
Affari e petrolio: il retroscena dell'incontro di Monti a Tripoli
di Gea Scancarello 

La bandiera verde della Jamahiriya è tornata a garrire in Libia. Bani Walid, l’oasi a 180 chilometri a Sud-Est di Tripoli, ex feudo di Muammar Gheddafi, è stata presa d’assalto lunedì 23 gennaio da miliziani legati all’ex regime del Colonnello in un’operazione i cui dettagli sono ancora poco chiari.
TRA PACE ARMATA E GUERRIGLIA. La notizia conferma le indiscrezioni giunte da fonti diplomatiche, di cui Lettera43.it ha dato conto: la situazione nel Paese libero dal Colonnello è tutt’altro che pacificata. Gli informatori riferiscono invece di un’alternanza tra «pace armata e la guerriglia aperta, in cui le sparatorie sono all’ordine del giorno, non solo a Tripoli».
Una situazione insomma estremamente fluida, che potrebbe risultare fatale: non solo per il futuro democratico della nazione, bensì anche per i cospicui interessi italiani nel Paese.
IN BALLO INTERESSI MILIARDARI. Si capisce meglio in quest’ottica perché il primo ministro Mario Monti si sia precipitato a Tripoli il 21 gennaio, nell’intento di rinsaldare l’antico legame con la ex colonia. In ballo ci sono

interessi per miliardi di euro, in campi che spaziano dall’approvvigionamento energetico all’immenso business della ricostruzione, passando per le partecipazioni libiche nei colossi industriali e finanziari italiani, Unicredit e Finmeccanica su tutti.
Eppure, dicono i bene informati, la missione è fallita. E la prova risiede nelle striminzite due facciate della Tripoli declaration firmata da Monti e dall’omologo Abdel Rahim al Qeeb. Un documento pieno solo di generici intenti, ancora da quantificare e formalizzare.

Salta il Trattato, petrolio e gas a rischio

La dichiarazione è ben altra cosa rispetto agli impegni del vecchio Trattato di Amicizia, siglato nel 2008 tra l’ex premier Silvio Berlusconi e Gheddafi: allora, in cambio di 5 miliardi di dollari in 20 anni di rimborsi coloniali, la Libia garantiva all’Italia la supremazia nell’assegnazione di appalti e giacimenti, oltre al contenimento dell’immigrazione clandestina.
LA TASK FORCE ITALIANA A TRIPOLI. Monti, spiegano i ben informati, sperava di riattivarlo con la visita, per poi farlo valere come uno dei punti forti della nuova fase di crescita dell’Italia. Per riuscirci ha portato con sé a trattare i maggiorenti del governo di Roma: il ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata e quello della Difesa Gianpaolo Di Paola. Oltre all’amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni, vero dominus delle questioni libiche.
LE RESISTENZE LIBICHE SULL'ACCORDO. Ma il governo di Tripoli ha risposto picche. Già il 13 gennaio l’esecutivo aveva fatto presente di «avere alcune riserve su dei punti inclusi nell'accordo». Stando a quanto appreso da Lettera43.it, però, le resistenze dei libici si concentrano su aspetti cruciali: idrocarburi, immigrazione, investimenti italiani in Libia e libici in Italia.
A RISCHIO LA SUPREMIA DI ENI. Fonti diplomatiche rivelano che il governo transitorio di Tripoli non ha intenzione di rinverdire l’antica partnership esclusiva. A rischio c’è la supremazia di Eni, che prima della guerra in Libia estraeva 116 mila barili al giorno e trasportava 24 milioni di metri cubi di metano (prima compagnia petrolifera internazionale).
Il Cane a Sei Zampe ha provato a rassicurare l’opinione pubblica confermando per bocca di Scaroni che «i contratti petroliferi non sono in discussione».
Ma se è vero che i contratti sono blindati fino al 2042 (petrolio) e 2047 (gas),  fonti accreditate rivelano che i libici minacciano di penalizzare il colosso di San Donato nell’assegnazione dei nuovi giacimenti da esplorare, come il bacino di Ghadames, vicino a Sirte, dove gli analisti ritengano che si concentrino l’80% dei giacimenti di greggio del Paese.

 

Disinvestimenti in Italia, a partire da Unicredit

Non sono però solo gli idrocarburi a preoccupare. Sembra che la Libia abbia intenzione di diminuire anche le proprie partecipazioni finanziarie in Italia, guardando Oltralpe e oltre la Manica. Gli ingenti capitali investiti nel settore assicurativo-finanziario italiano (si legga Unicredit, di cui la Banca centrale di Tripoli e i Fondi sovrani possiedono il 7,4%) potrebbero essere dirottati su Parigi. Le dual use technologies (tecnologie civili e militari, come quelle di Finmeccanica, di cui Tripoli è azionista al 2%), invece, potrebbero essere commissionate alle aziende britanniche.  Premiando così gli interventisti della prima ora.
NIENTE AUMENTO DI CAPITALE. Niente è ufficiale, certo. Ma alcune indicazioni sono chiare. Il governatore della banca centrale di Tripoli, Saddeq Omard Elkaber, ha dichiarato per esempio di non avere intenzione di sottoscrivere l’aumento di capitale di Unicredit, diluendo la propria quota dal 4,9 al 2,8%.
 «Non è il momento per investire all'estero. C'è una decisione del consiglio dei ministri. Intendo né aumenti di capitale, né iniezione di mezzi freschi negli investimenti esteri», ha dichiarato alla stampa. E il fondo Lia (Lybian investment authority) si appresta a prendere la stessa strada.

 

La durezza con gli italiani serve a coprire le debolezze interne

Non stupisce dunque che Monti sia tornato da Tripoli estremamente amareggiato. Tanto, si dice, da aver avuto qualche screzio con il ministro Terzi, accusato di essere stato troppo poco attivo, nei due mesi trascorsi dalla nomina, sul fronte libico.
Il primo ministro sapeva che sarebbe andato incontro a una situazione difficile, ma sperava un po’ meno. Invece, riferiscono fonti diplomatiche, l’Italia sconta tutto il peso dell’amicizia tra l’ex premier Berlusconi e Gheddafi.
POCO CREDITO DELL'ESECUTIVO DI AL QUEEB. Nessuno a Bengasi dimentica il famoso baciamano, o quando il Cavaliere si rifiutò di «disturbare» il Colonnello nel febbraio scorso, mentre si accingeva a reprimere nel sangue la rivolta. E i ribelli ora al potere lo hanno fatto presente molto chiaramente al nuovo governo italiano.
È una questione di orgoglio, ma anche di necessità. Le divisioni che insanguinano la Libia sono infatti il riflesso della situazione fluida del Paese e della debolezza del governo di Al Queeb: l’esecutivo gode di poco credito tra gli stessi libici.
Fare il muso duro contro gli stranieri che non si sono schierati subito a favore della rivoluzione è un modo per costruire consenso interno. E l’Italia ha esitato decisamente troppo a sposare la causa.

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