da: la
Repubblica
Sei anni sono passati
dall’inizio della crisi, e tre sono gli stati d’animo di chi in Europa governa
lo squasso o lo patisce. C’è chi si complimenta con se stesso, convinto che il
peggio sia alle spalle: nei Paesi debitori le bilance di pagamento tornano in
pareggio, l’intervento lobotomizzatore è riuscito, anche se il paziente intanto
è stramazzato. Ci sono i catastrofisti, che ritengono euro e Unione un fiasco.
Di qui l’appello a
riprendersi la sovranità monetaria sconsideratamente immolata. Infine ci sono
gli europeisti insubordinati: essendo la crisi non finanziaria ma politica, è
l’Unione che urge cambiare, subito e radicalmente.
I veri rivoluzionari
sono gli ultimi, perché vogliono scalzare il potere delle inette oligarchie che
l’hanno guastata e crearne un altro, non oligarchico. La questione della
sovranità sequestrata non viene affatto negata, ma posta in altro modo:
esigendo accanto alle malridotte sovranità statali una sovranità europea
effettiva, solidale e quindi federale, dotata di una Banca centrale prestatrice
di ultima istanza. Nietzsche li avrebbe chiamati i «legislatori del futuro»,
dediti a un «compito colossale» ma ineludibile: non contentarsi di constatare
la crisi, ma «determinare il Dove e Perché» del cammino umano, fissando nuovi
princìpi.
Sono gli unici in
grado di adottare l’antica, nobile filosofia scettica: la realtà
costituita è
apparenza, e il compito colossale consiste nel confutarla col pensiero e gli
atti. A ogni tesi corrisponde un’antitesi: il mondo non è senza alternative.
Quest’ultimo è insensato oltre che menzognero, ragion per cui i rivoluzionari
sono avversari dell’immobilismo, che professa l’Europa a parole. Quando sentono
parlare di bicchiere mezzo pieno s’impazientano, perché un pochetto di vino va
bene per i tempi tiepidi, non per i bollenti. Non a caso la parola greca
skepsis significa ricerca, indagine: gli scettici si dissero “ricercatori”,
visto che tutte le questioni erano aperte.
Non stupisce che umori
analoghi si manifestino a Atene, nei programmi di Alexis Tsipras, leader della
sinistra radicale ellenica ed europea. La Grecia infatti è stata non solo un
Paese immiserito dal trattamento deflazionistico. L’hanno usata come cavia,
come animale da esperimento biologico. Biologico alla lettera: quanto e come
avrebbe resistito, viva, alla cura da cavallo? Non ha resistito. La bilancia
dei pagamenti è risanata ma si è gonfiato un partito nazista, Alba Dorata. Dal
paese-cavia giungono notizie costernanti: ai suicidi, s’aggiungono
quest’inverno i morti carbonizzati da malconce stufe a legna, usate quando non
hai soldi per l’elettricità (sito di Kostas Kallergis). Tra i legislatori del
futuro non dimentichiamo i Verdi di Green Italia.
Lista Tsipras e Verdi
potrebbero unire gli sforzi, se non saranno esclusi dal Parlamento europeo che
sarà eletto il 22-25 maggio. La lotta non è tra europeisti e antieuropeisti (i
poli sono tre, non due). È tra chi si compiace in pigri rinvii, chi fugge, e
chi vuol scompigliare l’Unione disunita. Questo pensano i firmatari
dell’appello di domenica sul Manifesto.
È urgente — dicono —
un’inversione di tendenza, che affidi alle istituzioni nazionali e comunitarie
il compito di realizzare politiche espansive, e alla Banca centrale europea una
funzione prioritaria di stimolo alla crescita: «Ammesso che considerare il
pareggio di bilancio un vincolo indiscutibile sia potuto apparire sin qui una
scelta obbligata, mantenere tale atteggiamento costituirebbe d’ora in avanti un
errore imperdonabile, e la responsabilità più grave che una classe dirigente
possa assumersi al cospetto della società che ha il dovere di tutelare». Tra le
firme: Stefano Rodotà, Luciano Canfora, Marcello De Cecco, Adriano Prosperi,
Guido Rossi, Salvatore Settis.
C’è una cosa che
abbiamo capito, in questi anni: l’Europa così com’è — e forse le democrazie —
non sono attrezzate per pensare e affrontare le crisi, se per crisi s’intende
non un’effimera rottura di continuità ma un punto di svolta, un’occasione che
ci trasforma. Crisi simili sono temute, perché minano oligarchie dominanti e
ricette fondate su vecchie nozioni di Pil, oggi molto contestate. Come nella
peste di Atene o nella guerra civile di Corcira (Corfù), narrate da Tucidide,
la corruzione dilaga e gli uomini diventano «indifferenti alle leggi sacre come
pure a quelle profane» (alle costituzioni democratiche, oggi). Nessuno crede
che otterrà giustizia e uguaglianza («Nessuno sperava di restare in vita fino
al momento della celebrazione del processo e della resa dei conti»). Quanto ai
capi della fazioni di Corcira: «A parole servivano lo Stato; in realtà lo
consideravano alla stregua del premio di una gara ».
Quello che abbiamo
visto in questi giorni a Lampedusa e a Roma — in centri sfacciatamente chiamati
d’accoglienza — è rivelatore: uomini e donne denudati per ripulirli d’una
scabbia contratta dopo l’ingresso nei recinti, e a Roma ribelli che si cuciono
le bocche. Chi ha visto il film di Emanuele Crialese (Nuovomondo) ricorderà la
vergogna di Ellis Island, presso la statua della libertà a New York:
l’umiliazione dei controlli medici, fisici, mentali, cui i trapiantati erano
sottoposti. Isola delle Lacrime, era chiamata. Il sindaco di Lampedusa Giusi
Nicolini va oltre: denudare in pubblico un essere umano ricorda i Lager.
Se la crisi è
paragonabile a una peste, se sconvolge costituzioni e democrazia, se secerne
rabbie tanto vaste (la Lega parla di «euro criminale »), non bastano più i
piccoli progressi di cui si felicitano i governanti. Esemplare è l’Unione
Bancaria concordata il 18 dicembre a Bruxelles dai leader europei. È stata
descritta come un «risultato storico». In realtà è un inganno, spiegano critici
seri come Wolfgang Münchau e Guy Verhofstadt sul Financial Times, o Federico
Fubini su Repubblica.
L’unione delle banche
vedrà la luce solo fra 10 anni, come se la crisi non esistesse già adesso, e le
somme che saranno allora a disposizione delle banche in difficoltà sono
ridicole: appena 55 miliardi di euro, «quanto basta per un unico intervento di
medie dimensioni (una sola banca, ndr), a fronte di bilanci bancari che in
totale valgono 25 mila miliardi» (Fubini, 20-12). Anche l’economista Rony
Hamaui, sul sito Voce. it, è esterrefatto: è bene che non siano i contribuenti
ma i privati a pagare, ma la somma in cantiere è niente, «se pensiamo che i
governi europei hanno mobilitato in questi anni risorse per oltre 4500 miliardi
». Angela Merkel ha voluto quest’accordo al ribasso: la sua rielezione, e la
coalizione con i socialdemocratici, sono non un progresso ma una regressione e
una chiusura.
Non è la prima volta
che l’Europa si trincera nell’ottusità, davanti a scosse gravi. Anche in politica
estera è così. Parigi ad esempio chiede aiuti per gli interventi in Africa, ma
si guarda dal condividere e discutere la sua politica estera con il resto
dell’Unione, e con Berlino che lo domanda da quando nacque l’euro.
Purtroppo le dittature
sembrano più equipaggiate delle democrazie, di fronte alle crisi e alle
rivoluzioni. Vedono crisi e sovversioni in ogni angolo, il che le rende
paradossalmente più mobili, guardinghe. La rapidità con cui Putin decide le sue
mosse è significativa: sia quando profitta della sua ricchezza energetica per
legare a sé l’Ucraina e vietarle l’associazione con l’Unione europea, sia
quando scarcera i propri dissidenti: tardi ma al momento giusto.
La sete dell’uomo
forte non meraviglia. È la sete dei catastrofisti, ma anche di chi difende lo
status quo. Solo i legislatori del futuro resistono. Sanno che il futuro dovrà
costruirsi sul rispetto delle Costituzioni, e su un’idea di bene pubblico che è
stata l’Europa a inventare, per far fronte col Welfare alla triplice sciagura
della povertà, della disuguaglianza, delle guerre civili.
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