da: la Repubblica
Il
baratro dell’Ucraina è una sfida aperta per le democrazie europee
Cercando
l’Europa nella notte di Kiev
di Andrea
Bonanni
Bruxelles, ora che la gente muore per lei, l’Europa non sa cosa fare. Come una vera “femme fatale”, incapace di misurare le passioni che suscita, la Ue guarda inorridita alle notti gelate di Kiev.
Nella capitale ucraina i manifestanti hanno trasfigurato la bandiera a dodici stelle in un simbolo di cui gli europei non sanno più riconoscere il valore. E si fanno ammazzare in nome di quel simbolo che da noi sembra suscitare ormai solo fastidio.
Con la solita miopia mercantile che le è
propria, Bruxelles aveva creduto che il contenzioso con il regime ucraino sulla
firma di un accordo di associazione fosse solo una questione commerciale: la
sicurezza dei rifornimenti energetici in cambio di un po’ di aiuti economici,
l’apertura di un grande mercato semi-vergine in cambio di una indiretta
legittimazione politica per il governo di Yanukovich. Questioni importanti,
certo, ma apparentemente gestibili in una logica contabile di costi-benefici
che è ormai il pensiero unico delle autorità comunitarie.
Ci sono voluti Putin, lo stesso Yanukovich e infine i manifestanti di Kiev che muoiono nella neve per farci capire che la posta in gioco è in realtà molto più alta. Che la partita è insieme ideologica e geopolitica. Da una parte si confrontano la democrazia europea e il dispotismo russo. Dall’altra si decide la collocazione geografica di un territorio grande due volte l’Italia e profondamente diviso tra identità occidentale e anima slava.
Naturalmente la crisi, la scelta, spetta in primo luogo al popolo ucraino. Ma il dramma di Kiev obbliga anche l’Europa a fare scelte difficili, a cui non era preparata. In sessant’anni di vita, l’Unione europea si è allargata infinite volte, ma sempre in modo pacifico e consensuale. Anzi, spesso l’allargamento ha consentito la pacificazione interna di Paesi che uscivano potenzialmente dilaniati da un lungo letargo totalitario o da guerre fratricide: è successo con la Spagna, con il Portogallo e, più recentemente, con molti Paesi del-l’Est e con le ex repubbliche sovietiche del Baltico. Sta succedendo anche adesso con la Croazia e la Serbia. In questi casi, molto spesso, è stata la classe dirigente di quei Paesi a fare per prima la scelta europea e a proporla poi alla propria opinione pubblica come una soluzione consensuale che consentisse di lenire antiche ferite.
La crisi ucraina ribalta questa prospettiva. Per la prima volta si assiste ad un potere che dice «no» all’Europa voluta a gran voce dal popolo. E proprio la sollevazione popolare che ne consegue dimostra come quel rifiuto non fosse solo dettato da ragioni di interesse economico, come Bruxelles ha inizialmente creduto, ma dalla necessità di auto-preservazione di un regime che non potrebbe sopravvivere a lungo in un habitat europeo.
Come deve muoversi Bruxelles in questo frangente? Per anni, fin dai tempi della «rivoluzione arancione », la scelta europea è stata quella di proporsi come mediatore tra le tensioni che pervadono la società ucraina. Un modo per rivendicare una «alterità» dell’Unione, una certa qual estraneità ad un conflitto che Bruxelles riteneva non ci riguardasse direttamente.
Questa strategia si è rivelata sbagliata. Prima il caso Tymoshenko, poi la rivolta di Kiev hanno dimostrato che l’Europa non può tenersi fuori da un conflitto in cui entrambe le parti in lotta la vogliono coinvolgere. Non basta più dire «la nostra porta resta aperta», come hanno pilatescamente ripetuto per mesi i responsabili di Bruxelles, se il regime ammazza quelli che vorrebbero imboccarla. Sia pure con la solita esasperante lentezza che caratterizza le reazioni europee, questa lezione sembra essere stata capita. Ieri, dal presidente del parlamento Schulz (ora sono possibili sanzioni») a Van Rompuy allo stesso premier italiano Enrico Letta («l’Ue non può accettare quanto sta accadendo»), si sono finalmente sentite reazioni più decise: minacce di sanzioni, moniti a rendere conto di una repressione «brutale». Il commissario all’allargamento Fuele è andato a Kiev. Sarà seguito a giorni dalla ministra degli esteri europea Catherine Ashton e da una missione del Parlamento europeo.
E il cambio di tono di Bruxelles ha già dato i primi frutti. Yanukovich si è detto pronto a fare concessioni. Sono segnali di speranza. Ma l’Unione commetterebbe un ennesimo errore se si illudesse che basti alzare un po’ la voce per risolvere la questione. Se vuole giocare il ruolo che gli stessi ucraini le hanno assegnato nel dramma di Kiev, l’Europa deve cambiare modo di ragionare, capire che rappresenta ormai valori che vanno ben al di là del suo peso economico, e dotarsi degli strumenti necessari per far fronte al nuovo ruolo. Anche perché l’Ucraina è solo la prima avvisaglia di un profondo cambiamento ormai in corso. Dietro l’Ucraina c’è la Bielorussia. E dietro ancora il Medio-Oriente, le primavere arabe incompiute, la questione islamica sempre più complicata, un Mediterraneo dove la gente annega sognando l’Europa, l’Africa sub-sahariana dilaniata dai conflitti civili. Come già avvenuto per la crisi finanziaria, il Mondo va molto più veloce di quanto prevedano gli orari di Bruxelles, ma non ci permette di scendere dal treno in corsa. E all’Europa non resterà altra strada che trovare il modo di adeguarsi alle sfide che la Storia le pone.
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