da: Il Fatto Quotidiano
Il
modello degli svedesi segue quello inaugurato da Marchionne a Pomigliano: meno
soldi, più lavoro. Altrimenti si va all’estero.
In principio fu Marchionne. Il primo a
importare in Italia quello che i sindacati chiamano “ricatto” è stato il piano
“Fabbrica Italia” a Pomigliano. “Se non accettate la riduzione delle pause,
l’aumento degli straordinari o le sanzioni per chi sciopera contro gli accordi
la produzione della Panda rimane in Polonia”. I sindacati hanno accettato e la
Panda è arrivata in Campania. Sul piano concreto, quando si allunga l’orario o
si è costretti a fare settimane intere di cassa integrazione, il reddito si
riduce lo stesso. Ma nemmeno con “Fabbrica Italia” si era arrivati alla
proposta drastica della Electrolux: taglio del salario altrimenti ce ne andiamo
in Polonia. Ieri l’azienda ha cercato di rimediare insistendo sulla scarsa
entità della riduzione: 3 euro l’ora, circa l’8% della retribuzione, 130 euro
al mese. Ma ha dimenticato di ricordare che tra le richieste ci sono la
giornata lavorativa a 6 ore, i contratti di solidarietà, il blocco di aumenti e
scatti di anzianità per tre anni e il non pagamento delle festività che cadono
di sabato e domenica. Il conto più corretto, dunque, è quello fatto dai
sindacati che parlano di circa 5-600 euro al mese.
L’ipotesi di spostare la fabbrica
all’estero, in Serbia, Polonia, Romania, Albania,
ricorre del resto sempre più
spesso nel gioco perverso delle delocalizzazioni. C’è stato il caso della Fiat,
in parte realizzato visto che l’azienda di Marchionne ha chiuso ben due
stabilimenti in Italia, Termini Imerese e Irisbus, potenziando le produzioni
all’estero. Ma, in controluce, il problema
ricorre nelle centinaia di crisi aziendali buona parte delle quali sono
consultabili sulle Pagine gialle della crisi pubblicata dal fattoquotidiano.it.
Il vizietto di Electrolux sembra essere molto apprezzato
in Svezia visto che un’altra
multinazionale, Ericcson, ha deciso di affrontare i suoi 335 esuberi con il
ricorso, per 12 mesi, al contratto di solidarietà. Il
quale è comunque un istituto di ammortizzazione sociale contrattato con i
sindacati, e che quindi permette, grazie all’intervento statale, di ridurre
moltissimo l’impatto della riduzione salariale. Ma rappresenta, in ogni caso,
una decurtazione del reddito che incide su redditi medio-bassi. Tra l’altro, da
quest’anno, la copertura è scesa dal 70% al 60% dello stipendio. Chi si era
distinto nel gioco della delocalizzaione era stata la Omsa che minacciava di
chiudere per andare in Serbia e che, di fatto ha chiuso, sia pure impegnandosi
alla ricollocazione delle sue operaie (avvenuta finora parzialmente).
Sulla sua scia si è
mossa anche un’altra azienda del settore, Pompea che ha annunciato 200 esuberi
in due stabilimenti per spostarsi in Serbia. La
solidarietà è utilizzata, ad esempio, anche in un mega-stabilimento come l’Ilva
di Taranto dove i 3.749 esuberi , su 1.1059 dipendenti, vengono scontati con
una riduzione del salario di portata analoga. Chi ha battuto la strada del
“ricatto” della delocalizzazione è stata anche l’Indesit della famiglia
Merloni. In quel caso la vertenza si è risolta con un piano di cassa
integrazione annuale e poi con quattro anni di solidarietà all’80%. Solidarietà
anche alla Menarini di Firenze, settore farmaceutico, dove i 1600 dipendenti
devono “pagare” di tasca propria i 730 esuberi.
Per il resto, la forma
preferita dalle aziende resta la cassa integrazione anche se, come dicono in
Fiom, “così sono capaci tutti a risolvere le vertenze”. Nel
2013 i lavoratori lasciati a casa per l’intero anno sono stati 515 mila con
oltre un miliardo di ore e circa 8 mila euro in meno in busta paga l’anno. È la
cassa integrazione, ad esempio, che ha messo la sordina al “caso Sardegna” dove
le vertenze e le proteste rimbalzate fino a Roma vedono oggi l’Alcoa attendere
la trattativa con Klesh con oltre 400 lavoratori in cig, l’Eurallumina che in
cassa ne ha collocati oltre 300 mentre il Carbosulcis ha deciso di ridurre fino
a chiudere la produzione di carbone ma si trova a dover gestire, e poi
ricollocare, i suoi circa 400 minatori.
Gli strumenti come la cassa
integrazione o i contratti di solidarietà riguardano ormai anche settori una
volta protetti come le banche. Alla Banca Marche, ad esempio, l’azienda vuole
mettere mano alle indennità di un centinaio di dipendenti dopo aver incentivato
circa 400 esuberi. Alla Cassa di Risparmio di Ferrara, invece, il pacchetto
prevede part-time, solidarietà e, immancabili, gli esuberi incentivati (gli
stessi che poi creano esodati).
Più complessa la situazione della
Natuzzi, eccellenza italiana nei divani, leader di un distretto industriale tra
la Puglia e la Basilicata che aveva minacciato, un anno fa, di chiudere tutto per
spostarsi in Romania. In seguito all’accordo sindacale, gli esuberi sono stati
ridotti da 1800 a 1506 ma l’azienda si è impegnata, oltre a incentivare
all’esodo 600 dipendenti, a rioccuparne, da qui al 2018, circa 850 in una
New.co che potrà utilizzare gli incentivi pubblici per il mobile imbottito e
assumere a salari ridotti. Sempre nell’ottica della concorrenza rumena.
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