Quando Abbado, minuto, pallidissimo, già minato dalla malattia, arrivò negli studi della Rai, l’orchestra della Scala lo accolse con un caldo applauso. Era un applauso di amicizia e di ricongiunzione: non lavoravano insieme da molti anni. Non c’era pubblico. Era la prova generale. Placato l’applauso dei professori calò un grande silenzio, anomalo in uno studio televisivo, più simile a una fabbrica che a un teatro. Ero a pochi metri dal maestro, emozionato e muto come l’intero personale dello studio diChe tempo che fa.Impressionava la sproporzione fisica tra l’imponenza della grande orchestra e la figura quasi incorporea del direttore.
Quando dalla chiostra degli strumenti cominciò a sprigionare la musica di Beethoven (terzo movimento del Concerto numero 3 per pianoforte e orchestra, Daniel Barenboim al pianoforte), fissai Abbado per avere conferma, da così breve distanza, dell’idea titanica del direttore demiurgo che doma e ammaestra il caos. Vidi un uomo di indicibile compostezza, dai gesti brevi e delicati, che in pochi secondi aveva stabilito con l’orchestra un rapporto intellettuale prima che fisico. L’esatto opposto — pensai — dell’animoso direttore di Prova d’orchestra di Fellini. Abbado dirigeva per seduzione, non per comando.
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