da: Il Sole 24 Ore
Everly
Brothers: svolta country per Billie Joe Armstrong e Norah Jones
di Francesco
Prisco
Quando si dice la capacità di stare sempre
sul pezzo. A novembre scorso nell'indifferenza dei più il front leader dei
Green Day Billie Joe Armstrong, ormai stella fissa della volta celeste rock con
una certa dimestichezza con le cliniche di riabilitazione, si toglie uno sfizio
che covava da chissà quanto tempo: omaggiare gli Everly Brothers, duo del rock
and roll degli albori le cui armonie vocali furono la via di Damasco per gente
come Lennon, McCartney, Simon e Garfunkel.
Passione insospettabile, la sua, che
necessitava giocoforza di una «sponda» perché non è che puoi rendere degno
tributo agli Everly se canti da solo. L'ha trovata in Norah Jones, cantautrice
jazzy abituata a frequentare atmosfere folk, evidentemente in debito – lei sì –
con la lezione musicale di Don e Phil Everly. Si sono visti a New York e, in
soli nove giorni, hanno buttato giù «Foreverly» (da notare il gioco di parole),
disco che riproduce interamente la tracklist di «Songs our daddy taught us»,
secondo album dei fratelli Everly datato 1958
nel quale gli allora impomatati
alfieri rock-a-billy rivendicavano con orgoglio l'appartenenza alla tradizione
musicale del Great American Songbook. A dare manforte Chris Dugan, tecnico del
suono di fiducia dei Green Day, il bassista Tim Luntzel e il batterista Dan
Rieser coi quali la Jones divide spesso il palco. È accaduto poi che il 3
gennaio scorso Phil, il più giovane degli Everly, se n'è andato a cavalcare per
le verdi praterie del cielo e l'operazione di Billie Joe e Norah ha acquistato
un imprevedibile senso di attualità.
Ed è un bene perché il disco merita. Come
nell'originale, apre il discorso lo standard «Roving Gambler» con l'armonica di
Charlie Burnham a fare da contrappunto alle soluzioni vocali del duo. «Long
time gone» è la più classica delle ballate per cuori solitari con l'honky tonk
piano della Signora a fare il solletico da sotto. «Lightning express» esalta il
pedal steel di Johnny Lam, «That silver haired daddy of mine» rende onore alla
buonanima di Gene Autry, padre nobile del country che la compose, mentre «Down
in the willow garden» è un inno solenne da ululare alla luna. Altra concessione
al crepuscolarismo in «Who's gonna shoe your pretty little feet?» che lascia in
fretta il posto a «Oh so many years», idillio imbottito di tremolo. «Barbara
Allen» rappresenta uno dei momenti più alti del disco, con Billie Joe che
sfodera doti di insospettabile folk singer e il violino di Burnham a
impreziosire la narrazione. Poi ci sono la delicata ninnananna pianistica di
«Rocking alone» e Norah che guadagna il centro della scena con la melodia
portante di «I'm here to get my baby out of jail». Difficilmente migliorabile
«Kentucky», il classico di Karl Davis che rappresentava uno dei momenti più
intensi dei concerti dei fratelli Everly. Non c'è che dire: un esperimento coi
fiocchi che forse servirà ad allargare gli orizzonti musicali di molti
ascoltatori senza pretese di Green Day e Norah Jones. Ché sciacquare i panni in
Mississippi non ha mai fatto male a nessuno.
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