da: Il Fatto Quotidiano
Uccisero
Aldrovandi Indultati, liberi e di nuovo in servizio (Enrico Fierro).
I
quattro agenti condannati per omicidio colposo fuori dopo sei mesi. E la
Polizia non li ha espulsi.
La “lunga notte” della famiglia Aldrovandi
non finisce mai. Anche oggi, anche in questi giorni, il dolore si rinnova
insieme all’indignazione. Lo sdegno per uno Stato pavido, ambiguo, prende il
sopravvento. Il calendario impazzisce e salta all’alba di cinque anni fa,
quando gli occhi del loro ragazzo Federico, diciotto anni e un futuro davanti,
fissano per l’ultima volta il cielo di Ferrara. Federico muore nello squallore
di un parco di periferia. Ammazzato di botte. Cuore e polmoni compressi dal
peso di chi gli spinge faccia e torace sulla terra. “Bastonato di brutto”. Con
tanta, crudele forza che due manganelli, gli sfollagente, quelli lunghi, neri e
duri, si rompono sulle sue ossa.
Il
padre: “L’ultima violenza inflitta a mio figlio”
A picchiarlo quattro poliziotti. Tre uomini
e una donna. Li hanno indagati, processati, condannati per omicidio colposo e
eccesso colposo nell’uso delle armi. Ora, scontata la pena, in buona parte
sfoltita grazie a sconti e indulti, tornano in servizio. Tesserino in tasca,
pistola nel fodero, di nuovo con la divisa addosso a servire lo Stato. Monica
Segatto, Paolo Forlani, Enzo Pontani, Luca Pollastri, agenti delle volanti “Alfa
2” e “Alfa 3” presenti quella malanotte del 25 settembre 2005, quando Federico
urla inutilmente “basta” e implora “aiuto”, sono tornati al loro lavoro. Non a
Ferrara, fa sapere il Dipartimento della polizia di Stato, e neppure in altre
città dell’Emilia Romagna. Ma in questure diverse. Uno schiaffo in faccia a
Lino Aldrovandi e Patrizia Moretti, i genitori di Federico. “Signor Pontani –
ha scritto in una lettera su Articolo21.org
papà Lino rivolgendosi a uno dei poliziotti condannati – mi permetta di dirle
che sia a lei che ai suoi tre colleghi, non vorrei mai più vedere una divisa
così importante e preziosa addosso, per quello che dovrebbe rappresentare per
tutti i cittadini di questo Stato: la legge”.
La
madre: “Così vince la cultura dell’impunità”
Patrizia Moretti vive in un dolore perenne,
ma non è una donna sconfitta. Le lacrime le segnano il viso ogni volta che
pronuncia il nome di Federico, ma lei ha imparato a ricacciarle in gola per
continuare a riflettere e lottare. “Quelle persone io non voglio più vederle in
polizia. Possono offendermi nei loro blog, come hanno fatto. Ma loro hanno
distrutto la vita di un ragazzo di 18 anni”. Ti fissa bene negli occhi,
Patrizia, perché sa che sta per proporre un pensiero grave: “La giustizia,
quella con la ‘G’ maiuscola, ci ha dato ragione, quindi la democrazia, con
tutti i suoi difetti, funziona. Ma poi, di fronte alla notizia che i
quattro tornano in servizio, pronti a rappresentare di nuovo la legge, ti
accorgi che c’è un’altra faccia dello Stato. Quella debole, ambigua, che cede a
pressioni di un potere altro, incontrollabile dal normale cittadino con i
normali strumenti della democrazia. È il muro di acciaio contro il quale ci
siamo scontrati in questi anni. È la cultura dell’impunità che abbiamo incontrato.
Le ricordo bene le pressioni, i depistaggi, le offese alla memoria di
Federico bollato come un tossico. Le manifestazioni sotto il mio ufficio”.
“Faccia da culo, falsa e ipocrita”, le ha scritto Paolo Forlani su Facebook.
Lino Aldrovandi, Patrizia Moretti e il loro infaticabile avvocato, Fabio
Anselmo, hanno chiesto di poter consultare tutti gli atti. Accesso negato, è
stata la risposta. Le regole della burocrazia sono crudeli, i sentimenti offesi
e le vite lacerate contano zero. Ai quattro poliziotti è stata inflitta la
sanzione più dura, informano dal Dipartimento della polizia di Stato, la
sospensione di sei mesi dal servizio, dopo c’è solo la destituzione. Ed è
quindi “naturale” che, scontata la pena, sei mesi di detenzione, visto che tre
anni sono stati condonati grazie all’indulto, tornino in servizio. Chi ha
deciso di fermarsi un attimo prima della decisione più grave, l’espulsione
dalla polizia? Le commissioni disciplinari, composte da funzionari di
polizia e rappresentanti dei sindacati, delle questure dove nel frattempo i
poliziotti erano stati trasferiti. Un guazzabuglio di regole, commissioni,
pareri, dentro il quale precipita l’immagine della polizia e la credibilità
dello Stato.
Nessuno
avvisò il magistrato di turno
Perché “il caso Aldrovandi” non è una
faccenda privata, la tragedia di un ragazzo morto e della sua famiglia. No.
Quello che è successo all’alba di un settembre ferrarese di cinque anni fa,
interroga lo Stato e la qualità della democrazia del nostro Paese. Una storia
che parla di violenze di un corpo di polizia, di depistaggi, di tentativi di
deviare il corso della giustizia e l’accertamento della verità. “Abbiamo avuto
una lotta di mezz’ora con questo. Lo abbiamo bastonato di brutto. È proprio
matto”: parole a caldo di uno dei poliziotti condannati . Poi smentite nel
corso del processo con maldestri tentativi di spiegare che “quello era il
linguaggio”. Federico urlava e si dimenava perché in preda a “excited delirium
syndrome”, la formula magica che doveva giustificare il pestaggio. Federico
tossico abituale, insisteranno i poliziotti, “eroinomane” dirà l’impietoso
onorevole Carlo Giovanardi. Le perizie si incaricheranno di dimostrare il
contrario. Federico urlava perché picchiato. Schiacciato sull’asfalto, a
terra, ormai morto, ma nessuno avvisa il magistrato di turno. La legge. Tutto
lascia pensare, si legge nella sentenza di primo grado, “che quella presenza
sul posto non fosse affatto gradita”. Sul “posto”, invece, arrivano una
quindicina tra funzionari e dirigenti della Questura di Ferrara. Federico è
ancora a terra, la sua famiglia non viene informata se non ore dopo, mentre
decine di agenti bussano alle porte delle case vicine per le prime indagini.
Il
testimone: “Sono venuti a pararsi il culo”
“Sono venuti a pararsi il culo”, dirà una
testimone. E i manganelli sequestrati cinque mesi dopo, “a genuinità
dell’indagine inevitabilmente compromessa”. La volante che Federico avrebbe
danneggiato con pugni e calci, invece, non viene mai sequestrata. Quante
stranezze e quanta crudeltà. Il cellulare di Federico che squilla, un
poliziotto che risponde dopo minuti interminabili e solo dopo essere stato
autorizzato da un funzionario. È Lino, il padre. Vuole notizie del figlio. Gli
chiedono i dati anagrafici del ragazzo. Poi troncano: “Stiamo effettuando degli
accertamenti, le farò sapere, devo interrompere la comunicazione”. Federico era
già morto. E questo, in un mare di bugie e depistaggi, era l’unica, tragica
verità.
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