da: la
Repubblica
A prima vista sembra
un vasto e violento tumulto in favore dell’Europa, quello che da mesi sconvolge
l’Ucraina. Un tumulto che ci sorprende, ci scombussola: possibile che l’Unione
accenda le brame furiose di un popolo, proprio ora che tanti nostri cittadini
la rigettano?
È possibile, ma a
condizione di decifrare l’insurrezione: di esplorarne i buchi neri, gli
anfratti. Di capire che la dimissione del premier Azarov non metterà fine alla
rabbia, all’anarchia. A condizione di non consegnare l’Ucraina al nero della
solitudine e mantenere però la mente fredda: che analizza, distingue la
superficie visibile dai sottofondi. A condizione che l’Europa sappia di essere
non solo simbolo, ma pretesto per abbattere il regime di Kiev. Che diventi
motore degli eventi, smettendo di vedere se stessa come Empireo immune da
difetti che abbraccia i cieli inferiori ma senza responsabilità. Lo sguardo
europeo è attratto dagli esotismi, ed esoticamente lontana è Piazza-Europa,
chiamata dagli ucraini Euromaidan.
Incapace di far
politica, l’Unione commenta con pietrificati sermoni sui propri valori il film
atroce, fatto d’incendi e lividi paesaggi, che vediamo in Tv.
Abbiamo alle spalle
anni di esperienze esotiche finite nel caos: le primavere arabe, la Libia, la
Siria. Le primavere svegliarono euforie democratiche degenerate in carneficine.
Un’analisi di questo radicale fallimento neppure è cominciata: né in Usa né in
Europa. Fondata è l’accusa dello scrittore polacco Andrzej Stasiuk sulla Welt:
viviamo, noi europei, nella paura di perdere la «roba» e nell’endogamia. La
nostra risposta agli squassi ucraini è una patologica coazione a ripetere.
I trattati di
psicologia insegnano: sempre ricadiamo nell’identica perversa letargia,
intrappolati e sorpresi dagli eventi, quando non riconosciamo di esserne
autori. La passività di fronte alla disperazione ucraina ripete quel che non
sappiamo: imparare, fare autocritica, trasformarci.
Eppure gli elementi
dell’immane complicazione di Kiev sono visibili. Sempre più, la protesta contro
il regime di Yanukovich assume tratti spurî, inevitabili in un paese immerso in
guerre civili perché reietto. L’ira esplose il 21 novembre, quando Kiev
rinunciò al trattato di associazione con l’Unione per timore di perdere Putin,
che sarà un semi- dittatore ma garantiva più aiuti dell’Europa, e contratti
promettenti in materie vitali: le forniture d’energia. Dopodiché tutto s’è
sbrindellato sfociando nel sangue, proprio come nelle primavere arabe (4
attivisti morti). L’insurrezione è senza leader e programmi stabili.
Nel suo torrente
nuotano anche gli ultranazionalisti, raccontano i reporter, ma l’aggettivo è
eufemistico. Anche se minoritarie, due destre estreme sono protagoniste: la
formazione Svoboda, nata da un partito neonazista che inneggia a Stepan Bandera
(collaborazionista di Hitler nella guerra) e che ancora nel 2004 si definiva
social-nazionale, avendo come emblema una specie di svastica; e il «Settore di
destra» (Pravi Sektor), che rischia di alterare un movimento in principio
liberal-democratico. La russofobia, dunque il razzismo, le impregna. Mark Ferretti
del Sunday Times lo scrive sulla
Stampa: per tanti, «l’integrazione nell’Unione europea non è la priorità». Non
basterà la revoca, ieri, delle leggi liberticide del 16 gennaio.
L’inerzia dell’Unione
europea risale ai tempi dell’allargamento. Già allora ci si concentrò su regole
finanziarie e giuridiche, e mancò la politica come sintesi: che difendesse la
natura federale dell’Unione in modo da frenare i nazionalismi dell’Est, e
costruisse un rapporto non sconclusionato con la Russia e le zone di mezzo fra
lei e noi (l’«estero vicino», si chiama a Mosca: è «estero vicino» anche per
noi). Una Russia influenzata certo dal passato (Putin ritiene una «catastrofe
storica» la fine dell’impero sovietico, che sogna di restaurare), ma un paese
mutante, col quale nessun discorso serio si apre perché sempre l’Europa aspetta
— per comoda abulia, per vizi contratti in guerra fredda — che la prima mossa
sia americana.
Quel che colpisce nel
no di Kiev a Bruxelles dovrebbe farci pensare: proprio perché nuovo,
frastornante. Perché il tumulto non ci dà automaticamente ragione, se l’Europa
è un pretesto. Inutile perdersi in descrizioni di un’Ucraina ancora erede
dell’ex Urss, e malefico sarebbe tollerare passioni torbide come la russofobia.
Utile è riconoscere invece che l’era degli allargamenti è conclusa, che le
adesioni o associazioni esterne fanno oggi problema. Perché quel che offre
l’Unione, in tempi di recessione e di crisi che non sa sormontare, attrae
enormemente ma anche respinge: sono così lontani, i frutti. L’Europa innalza
muri di cinta e la Russia no, quali che siano i suoi colonialismi. C’è poco da
compiacersi. La disfatta è nostra.
Se l’Unione è colma di
vizi di costruzione, è perché alcune domande essenziali neanche se le pone,
neanche sospetta che interrogarsi e mettersi in questione sia già un inizio di
buona risposta. Ad esempio: dove finisce l’Europa e dove precisamente comincia
l’Est? Cosa vuol dire confine, e l’Estero Vicino? E quali sono i criteri che
permettono di affrontare il dramma di un popolo che vuole l’Europa ma in parte
anche la respinge, temendo di accentuare la propria crisi infilandosi nella sua
orbita?
Qui è il guaio:
l’Europa assiste a simili terremoti come se fosse non un attore politico ma un
semplice contenitore, una sorta di hotel degli Stati e dei popoli.
L’allargamento nel 2004-2007 avvenne inscatolando, non integrando, e l’Unione
non ne uscì rafforzata ma svuotata. I nuovi Stati, esclusa la
Polonia a partire dal 2010, non hanno capito l’Unione in cui entravano: la
scambiarono appunto per un recipiente, che invitava a trasferire sovranità
nazionali verso l’ignoto, non verso un’autorità comune, solidale, forte di
un’autentica politica estera. L’Ucraina è piena di buchi neri, ma anche noi. Ha
vinto la ricetta britannica: mera custode di parametri finanziari, l’Unione è
un’area di libero scambio, non una potenza politica.
Non stupisce che gli
inviati europei a Kiev (Catherine Ashton, incaricata dei rapporti esterni, è
una delle persone più scialbe dell’Unione) siano completamente muti. Che Van
Rompuy, A parte questo: nulla. Sono andati alla Piazza di Kiev politici Usa
(Victoria Nuland vice segretario di Stato, i senatori John McCain, Chris
Murphy) ma nessun politico europeo di rilievo. Non per questo gli Stati
dell’Unione sono assenti. Angela Merkel è molto attiva: sostiene un oppositore
del regime di Kiev, l’ex pugile Vitaly Klitschko, ma solo per immetterlo nel
Partito popolare europeo e punzecchiare Putin senza un piano generale. Ancora
una volta non è l’Unione a muoversi, ma il paese geopoliticamente più
interessato, e forte.
In Europa si coltiva
l’idea, esiziale, che prima viene l’economia, e chissà quando la politica
estera. È una delle sue più gravi menomazioni. Avere una politica estera, nel
Mediterraneo e in una Russia pensata oltre Putin, implica collocarsi nel mondo
come soggetto politico, non come finanziere o commerciante. Accodarsi a
Washington significa condividere un destino di guerre perse, di potenza non più
egemonica e solo nazionalista, impreparata a pensare un mondo i cui attori sono
oggi molteplici. Un destino che mescola valori altisonanti e calcoli economici,
creando guazzabugli. Da questa gabbia conviene uscire al più presto.
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