martedì 2 luglio 2013

Ue, banche: le diverse garanzie in caso di crac



da: Lettera 43

Banche, le differenze nelle garanzie offerte dai Paesi Ue
In caso di crac bancari, in Europa restano differenze su fondi e i depositi tutelati. Per Barclays: «In Italia sono scoperti 660 miliardi di euro». Costi dei conti troppo alti.
di Giovanna Faggionato

Si fa presto a dire 'unione bancaria'. Un tassello importante per evitare le crisi è stato messo.
I ministri delle Finanze Ue, il 17 giugno, hanno deciso a chi tocca  tirare fuori i soldi nel caso di fallimento di un istituto di credito.
Non è un affare da poco: l'accordo dovrebbe servire a evitare che in caso di crac a pagare siano gli Stati, e quindi i cittadini contribuenti. Secondo l'intesa raggiunta, in prima battuta l'esborso toccherà agli azionisti delle banche, poi agli obbligazionisti. E solo alla fine saranno toccati i depositi, fatti salvi quelli sotto i 100 mila euro che, grazie alla direttiva europea  14 del 2009, sono garantiti in tutti i Paesi dell'Unione e devono essere rimborsati entro 20 giorni lavorativi.
FLESSIBILITÀ RISCHIOSA. Ora, almeno, si sa a grandi linee cosa succede nel caso di una crisi. A grandi linee, perché l'accordo deve passare ancora
all'esame del parlamento e soprattutto perché Francia, Gran Bretagna e Italia si sono opposte a un sistema di regole valido per tutti.
Il risultato è che resta una certa flessibilità sulla tipologia dei depositi da tutelare e anche sui modelli dei fondi di garanzia, cioè i fondi che servono a rimborsare i correntisti in caso di crisi, in modo da evitare la corsa agli sportelli.
La proposta del Consiglio Ue si adegua alla ricetta americana: ogni Stato dovrebbe avere un fondo con una dotazione di liquidità pari all'1,3% del valore dei depositi per cui può essere chiesto il rimborso.
Ma i tempi sono lunghi: per adeguarsi ci sono 10 anni. E, stando a una nota tecnica pubblicata a marzo dal Fondo monetario internazionale (Fmi) e a un rapporto di Barclays group di aprile 2013, restano molte disparità tra Paesi da risolvere.
SEI PAESI CON FONDI EX POST. Ci sono infatti Stati come la Germania in cui al sistema di garanzia obbligatorio se ne affianca uno collaterale «attraverso il quale sono garantiti circa il 30% dei depositi». E altri come Gran Bretagna, Olanda, Austria, Slovenia, Lussemburgo e Italia, nei quali gli istituti di credito accantonano la quota di emergenza nei loro bilanci, ma la tirano fuori solo nel momento della crisi (tecnicamente si chiamano fondi ex post). I soldi insomma restano dentro alla banca: non proprio la migliore assicurazione contro i rischi.

L'Italia ha un fondo ex post, criticato dal Fmi
L'Italia era fino al 2009 uno dei Paesi con una delle più alte garanzie in Europa per i depositi bancari.
Poi però tutti gli Stati Ue hanno adottato una garanzia sui conti correnti fino a 100 mila euro. E sono emerse allora altre differenze.
SOLO DUE INTERVENTI. Il sito del Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd), a cui aderiscono 259 istituti di credito italiani e che ha la responsabilità di garantire i depositi, finora è dovuto intervenire solo due volte a salvare correntisti. E ha sempre rispettato i tempi.
Le sue riserve di liquidità si sono dimostrate sicure.
Il fondo chiede che ogni banca accantoni nel suo bilancio annuale una quota, pari a una percentuale tra lo 0,4 e lo 0,8% di ciò che in caso di crisi sarebbe tenuta a rimborsare. E i soldi rimangono nella pancia degli istituti fino all'emergenza. Ma questo metodo è finito nelle critiche del Fondo monetario.
«SISTEMA MENO ADATTO ALLE CRISI». I fondi ex post come quello italiano hanno il vantaggio di indurre le banche a controllarsi reciprocamente, per paura di doversi coprire vicendevolmente le perdite. Ma proprio perché chiedono di versare i soldi nel momento dell'emergenza, hanno lo svantaggio di aumentare il carico sulle banche nei momenti in cui il sistema è già «sotto pressione» e di «fare leva (costringere a pagare, ndr) sugli istituti sopravvissuti e non su quelli falliti», come ha scritto l'Fmi nella propria nota.
Insomma, nei momenti di crisi del sistema, le garanzie strutturate come la nostra tendono ad aggravare la situazione. Tanto che la stessa Commissione aveva caldeggiato il passaggio a un modello ex ante, cioè a fondi costituiti fuori dai bilanci degli istituti di credito, ai quali contribuiscono anche le banche fallite.
IN UE RESTA LA DISCREZIONALITÀ. La proposta approvata dai leader europei per modificare il sistema di tutele dei depositi invece lascia l'ambiguità. Parla del passaggio ai fondi ex ante, ma aggiunge anche che ci possono essere eccezioni se viene garantita l'efficienza del meccanismo. La discrezionalità, dunque, rimane.
Come se non bastasse, restano incerti i rapporti che devono intercorrere tra i diversi fondi nazionali.
I Paesi rigoristi hanno di fatto limitato di molto il ruolo del fondo salva Stati nei salvataggi bancari, lasciando il carico sui singoli Paesi.
RESTA IL RISCHIO DI SISTEMA. Già a marzo 2013 l'Fmi metteva in guardia dal pericolo: «Il sistema di garanzie attuale manca di una protezione piena e credibile contro il rischio sistemico» a causa dell'assenza di «un sistema di reciproco prestito» e si rimette alla capacità dei singoli Stati di coprire «i propri schemi di garanzia, rinforzando il cortocircuito tra banche e debito sovrano».

«L'Italia garantisce il 40% dei depositi»
Per ora è stato definito il percorso di fallimento delle banche di cui rispondono gli azionisti e che difende i depositi garantiti fino ai 100 mila euro. Ma tra i primi, gli azionisti, e i  piccoli correntisti c'è una lunga serie di attività finanziarie su cui ogni Stato dice la sua.
Preoccupati per la gestione maldestra della crisi di Cipro,  lo scorso aprile gli analisti di Barclays Group hanno provato a confrontare i sistemi di garanzia ufficialmente in vigore negli Stati europei.
In un'analisi firmata da Simon Samuels, Mike J. Harrison e Nimish Rajkiota, intitolata significativamente «The rules are, not rules» (Le regole sono che non ci sono regole), hanno messo in fila le differenze tra Stati.
660 MILIARDI NON GARANTITI. Secondo i dati riportati da Barclays, l'Italia è il Paese in cui la garanzia istituzionale ha la minore estensione: il 59% delle attività finanziarie non sarebbero garantite (per un ammontare totale che si aggira attorno ai 660 miliardi di euro). Lettera43.it ha chiesto spiegazioni al fondo che tutela i depositi e non ha ricevuto smentite sui numeri.
Il fondo specifica chiaramente le tipologie escluse dalla tutela sul proprio portale Internet. Sono esclusi, per esempio, i certificati di deposito non nominativi, le obbligazioni, ma anche i depositi dei fondi pensioni, delle compagnie assicurative e delle imprese.
LA GRAN BRETAGNA COPRE IL 53%. Dopo l'Italia, ma con un distacco di quasi dieci punti percentuali, viene la Gran Bretagna che garantisce il 53% dei depositi.
Oltremanica, per esempio, sono esclusi dalla garanzia i depositi delle grande imprese che invece in Francia sono assicurati.
I limiti alla tutela non sono necessariamente un male: è giusto che gli investimenti meno rischiosi siano più tutelati di quelli rischiosi.
Il problema è che ci sono Paesi che garantiscono (quasi) tutto come la Germania, la Danimarca, la Svezia o la Finlandia. E altri che coprono solo i meri depositi a vista. In tutto, dicono gli analisti di Barclays, ben 14 categorie di depositi hanno garanzie differenti Stato per Stato. Disparità che, fino alla nascita di una vera Unione bancaria, sono destinate a pesare nelle scelte degli investitori.

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