da: Il Fatto Quotidiano
Proseguono gli sforzi dei giornali italiani
per confermare l’ultima classifica di Reporter Sans Frontières sulla libertà di
stampa, che ci vede al 57° posto nel mondo, alle spalle di Botswana, Niger, Sud
Corea, Ungheria, ma con ampi margini di peggioramento.
Sabato mattina le agenzie informavano di
una strana incursione in casa del pm di Palermo Roberto Tartaglia che sostiene
l’accusa al processo sulla trattativa Stato-mafia con i colleghi Di Matteo e
Del Bene: ignoti visitatori hanno abilmente forzato la serratura, spostato
preziosi gioielli della moglie senza rubarli e individuato e trafugato a colpo
sicuro una pen-drive fra le tante: proprio quella contenente verbali ancora
segreti dell’inchiesta-bis sulla trattativa. Un messaggio preciso: sappiamo
quel che fai, per noi non esistono segreti, entriamo in casa tua quando
vogliamo, e attento ai tuoi cari. Un’operazione che puzza di servizi distante
un miglio, infatti – a parte il deputato Lumia, il ministro D’Alia e l’Anm –
nessun’autorità dello Stato ha solidarizzato col pm. E la grande stampa ha
completamente ignorato la notizia (a parte il Fatto, si capisce).
Parlare di Tartaglia significa nominare la
trattativa, e non sta bene. Inoltre, a furia di raccontare le minacce subìte
dai pm che l’hanno scoperta (anche Di Matteo e Del Bene ne ricevono da mesi),
la gente potrebbe capire che quel processo “non s’ha da fare”. E perché.
Mentre gli ignoti visitatori gli entravano in casa, Tartaglia era impegnato in
udienza a rintuzzare la raffica di eccezioni e cavilli difensivi non
degl’imputati mafiosi, ma dei rappresentanti dello Stato, che fanno carte false
per traslocare il processo da Palermo verso lidi più placidi e sabbiosi: quelli
di Roma. Magari al Tribunale dei ministri. Mancino ha la spudoratezza di
sostenere che la sua presunta falsa testimonianza, commessa nel 2011, sarebbe
reato ministeriale: e pazienza se Mancino smise di essere ministro nel marzo
1994. Un ministero, come il diamante, è per sempre. E vale il principio del
“lei non sa chi ero io”.
Vedremo che spazio avranno sui giornali di
oggi le dichiarazioni di Totò Riina sulla trattativa con lo Stato (“io non
cercavo nessuno, sono loro che cercavano me”), sul suo arresto (opera “di
Provenzano e Ciancimino, non dei carabinieri”) e sul furto dell’agenda rossa di
Borsellino (“c’è la mano dei servizi”), ascoltate dagli agenti che
l’accompagnavano in udienza il 31 maggio e riferite ai pm. Ma soprattutto
vedremo come verranno presentate. Perché quando parla un mafioso, pentito o
meno non importa, politici e giornali si regolano così: se il boss dice cose
funzionali al potere, è un testimone attendibile proprio perché mafioso;
viceversa, è inattendibile proprio perché mafioso. Brusca era attendibile
quando confessò la strage di Capaci e altre decine di omicidi, ma appena parlò
di trattativa divenne un bugiardo. Spatuzza era credibile quando smontò il
depistaggio su via D’Amelio e se ne assunse la colpa, ma poi parlò di B. e
Dell’Utri e divenne un peracottaro. Riina non è pentito: parla da mafioso. Ma
stavolta lo fa non con dichiarazioni spontanee in aula (lì ogni parola sarebbe
un’autoaccusa, per un boss che nega tutto, anche l’esistenza della mafia): lo
fa off records, ma avendo cura di essere ascoltato, perché il messaggio arrivi
a destinazione. Sull’agenda rossa e sul suo arresto, Riina non può sapere nulla
di preciso: dunque ciò che dice lascia il tempo che trova. Ma sulla trattativa
sa molto, perché il primo destinatario della mediazione di Ciancimino per conto
del Ros era lui. E le sue parole collimano con tre sentenze definitive sulle
stragi del 1992-’93, mentre smentiscono la versione dei rappresentanti dello
Stato: la trattativa fu avviata dallo Stato, non da Cosa Nostra. Quando Riina
dice “io non cercavo nessuno, sono loro che cercavano me”, sta ricattando chi
sa lui, ma dice la pura verità. A questo siamo: il capo della mafia è un po’
più credibile dello Stato.
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