da: Il Fatto Quotidiano
Condannato
e mazziato: la vera guerra dei vent’anni è quella di B. con il portafoglio
di Gianni Barbacetto
Per essere condannato a una pena più alta
di quella chiesta dai pm, bastava un avvocato d’ufficio. Così sussurrano a
Silvio Berlusconi, non senza una buona dose di velenosa malizia, gli amici
della sua cerchia più stretta, che ormai non vedono più di buon occhio gli
avvocati Niccolò Ghedini e Piero Longo, per anni potentissimi nella gerarchia
di Arcore. “Quelli ti spolpano, senza riuscire mai a vincere una causa”, sibilano
suadenti. Le spese per processi e avvocati, in effetti, sono pesantissime. Una
volta Berlusconi ha buttato lì anche una cifra. Dopo l’ennesima sconfitta (la
Cassazione aveva appena respinto la sua richiesta di spostare da Milano a
Brescia i processi “toghe sporche”), si è sfogato così: “Bel risultato, e
pensare che ho speso 500 miliardi in avvocati”.
Era il 2003 e l’allora presidente del
Consiglio parlava di miliardi di lire. Una somma imponente, riportata dal
Corriere della sera e mai smentita da Berlusconi. In quegli anni, Silvio
dichiarava un reddito personale di circa 10 miliardi di lire l’anno, dunque per
pagare gli avvocati avrebbe speso per dieci anni quattro o cinque volte più di
quanto guadagnato. È mai possibile?
Se prendiamo per buona quella autocertificazione,
riferita al decennio 1993-2003, oggi la cifra andrebbe raddoppiata per coprire
il decennio 2003-2013. Otterremmo un totale di mille miliardi di lire, ovvero
circa 500 milioni di euro. Ora, i casi sono due: o Berlusconi, che ama le
iperboli, ha sparato una cifra lontana del reale; oppure in quel numero un
nucleo di verità c’è. Se si dà retta a questa seconda ipotesi, bisogna
considerare la schiera dei suoi avvocati, penalisti e civilisti, e sommare ai
suoi guai giudiziari tutte le inchieste che hanno coinvolto uomini della sua
galassia di imprese: Fininvest, Mediaset, Publitalia, Mondadori, Milan calcio,
Medusa, Mediolanum, Videotime, Mondadori, Telepiù, il Giornale, Edilnord,
Simec…
Berlusconi (come al solito) non fa
distinzione tra soldi suoi e soldi delle sue aziende. Stuoli di difensori sono
stati coinvolti nei processi intentati in questi vent’anni non solo contro il
fondatore, ma anche contro parenti (il fratello Paolo, il cugino Giancarlo
Foscale), amici (Adriano Galliani, Fedele Confalonieri, Romano Comincioli e
soprattutto Marcello Dell’Utri…) e decine di manager fedeli (come Salvatore
Sciascia). In Italia e anche all’estero, dove schiere di avvocati si sono
opposte strenuamente alle rogatorie chieste dai magistrati italiani: in Svizzera
e in Gran Bretagna, in Lussemburgo e nel Liechtenstein, fino alla Spagna dove
il giudice Baltasar Garzon ha indagato su Telecinco. Nei primi anni del
millennio, quando era coinvolto nei processi sulle tangenti alla Guardia di
finanza, il gruppo Fininvest fatturava poco più di 4 miliardi di euro e metteva
a bilancio per spese legali 32 milioni, pari allo 0,8 per cento del fatturato.
Un’enormità, se si pensa che in quegli stessi anni il gruppo Fiat, che
fatturava 57 miliardi di euro, indicava a bilancio spese legali per 60 milioni
di euro, cioè soltanto lo 0,1 per cento.
La prima ondata di processi degli anni
Novanta (tangenti Gdf, maxi-mazzetta a Craxi, Medusa, Macherio, acquisto di
Gigi Lentini) è stata affrontata con principi del foro come Ennio Amodio e
Giuseppe De Luca, con difesa prevalentemente tecnica e buoni risultati:
l’imputato Silvio Berlusconi è riuscito a uscirne sostanzialmente indenne,
anche se con una buona dose di prescrizioni, un pizzico di insufficienza
probatoria e una spruzzata di depenalizzazioni procurate dalla nuova legge sul
falso in bilancio. Poi è arrivata la difesa, più “politica”, di Gaetano
Pecorella. Infine quella, molto “politica”, di Ghedini e Longo, giocata su più
tavoli, nelle aule di giustizia e in quelle del Parlamento. Con risultati, come
abbiamo visto, modesti. In campo sono scesi, nel tempo, anche Oreste Dominioni
e Guido Viola, in difesa del fratello Paolo. Domenico Contestabile contro due
giornalisti, Giovanni Ruggeri e Mario Guarino, autori di Berlusconi: inchiesta
sul signor tv. Tra i civilisti, Vittorio Dotti ha condotto dal suo studio di
Milano la battaglia per la conquista della Mondadori (ripudiato da Silvio dopo
il “tradimento” di Stefania Ariosto, allora sua compagna).
Intanto, dal suo studio di Roma, lavorava
un altro civilista, Cesare Previti, che si dava da fare per comprare giudici e
sentenze. Ci sono anche i soldi incamerati e distribuiti da Previti, nella
somma che Berlusconi indica come spese per i suoi legali? Massimo Maria
Berruti, civilista anch’egli, era specializzato in affari offshore, lavorava
per l’acquisto di Lentini e teneva soprattutto i rapporti con l’avvocato
londinese David Mills, che ha costruito il sistema di società estere di
Berlusconi, la Fininvest-ombra “Group B”. Nel caso Tarantini-Lavitola, sono
scesi in campo gli avvocati Nicola D’Ascola, Nicola Quaranta e Giorgio Perroni.
Poi ci sono i risarcimenti: come quello
record pagato da Paolo Berlusconi per uscire con un patteggiamento dal processo
sulle discariche lombarde: 55 milioni di euro più 38 milioni al fisco. Per
raggiungere l’astronomica cifra di 500 milioni, si possono infine mettere nel
conto anche i soldi spesi per risarcire i danni a chi è stato diffamato dalle
campagne condotte dai giornali e dalle tv di famiglia. Costosissimi gli
attacchi di Vittorio Sgarbi, di Vittorio Feltri, di Alessandro Sallusti, di
Giuliano Ferrara, dei giornalisti di Panorama . Per difenderli, si sono
schierati in campo avvocati come Grazia Volo, Francesco Vassalli, Guglielmo
Gullotta, lo studio Brambilla Pisoni. E Romano Vaccarella, poi diventato
giudice della Corte costituzionale e infine tornato ad assistere Silvio nella
vertenza sul Lodo Mondadori. Insomma: Silvio quando spara cifre sarà anche un
po’ “bauscia”, come dicono a Milano, ma non va tanto lontano dal vero. In
fondo, per vent’anni il sistema è stato costoso, ma ha tenuto. Oggi si sfalda,
tanto che Berlusconi torna, per la causa Mediaset in Cassazione, alla difesa
“tecnica” di un avvocato come Franco Coppi.
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