lunedì 8 luglio 2013

Da Gaza alla Siria: i riflessi della svolta egiziana

da: La Repubblica

Il rischio contagio incubo dell’Occidente
di Renzo Guolo

La forzata fine del governo della Fratellanza Musulmana in Egitto costituisce una drammatica cesura nel processo in corso nel mondo della Mezzaluna. Il golpe in riva al Nilo avrà riflessi nell’intera regione.
Le transizioni arabe si erano rette sin qui sul patto tra gli Stati Uniti e la Fratellanza. Washington aveva fatto cadere il veto nei confronti delle forze islamiste che contavano sul consenso popolare, purché garantissero “affidabilità sistemica”. Ovvero rinunciassero a mettere in discussione alleanze e trattati, in particolare quello con Israele, e facessero muro contro il terrorismo qaedista. Il colpo di stato egiziano scrive, di fatto, la parola fine su quel patto. Dopo il 3 luglio, con la leadership politica e religiosa della Fratellanza egiziana agli arresti come ai tempi di Nasser e Mubarak, difficilmente quella convergenza potrà riproporsi. Da qui i timori della Casa Bianca, per le ripercussioni delle vicende egiziane nell’intera regione.
Se gli oppositori di Morsi imputavano a Obama di non mettere alle strette il presidente deposto, saranno ora gli islamisti a imputare agli Usa la loro immobilità. Il golpe risolve, apparentemente, il problema egiziano ma ne apre altri. 

A cominciare dalla Siria, dove la Fratellanza locale, molto meno malleabile di quella messa fuori gioco all’ombra delle Piramidi, è impegnata nella lotta al regime di Assad e, per proprietà transitiva, all’Iran e Hezbollah. Non è un caso che proprio Assad, con il quale l’Egitto di Morsi aveva definitivamente tagliato i ponti settimane fa, abbia esultato all’annuncio del generale Al Sissi. Se la Fratellanza non può governare l’Egitto, perché mai potrebbe farlo in Siria?
La deposizione di Morsi si riverbera anche sulla Tunisia, dove Ennhada, altra formazione di filiera “FM”, rischia di essere travolta dall’accusa di incapacità di guidare una società plasmata dal nazionalismo laico. E su Hamas, costola palestinese
del movimento, che timoroso di veder nuovamente chiudersi la gabbia di Gaza al confine occidentale, potrebbe riprendere i rapporti con l’Iran, sopiti dopo l’ascesa di Morsi.
Subisce un duro colpo anche la Turchia di Erdogan, per il quale ogni tintinnare di rumore di sciabole, o peggio, un più deciso clangore di cingoli nelle strade, evoca il fantasma del passati colpi di stato contro i partiti islamisti progenitori dell’Akp. La rivolta laica e anti-autoritaria di Taksim è pur sempre un campanello d’allarme. Nella competizione per l’egemonia tra i paesi del Golfo, arretra il Qatar, che con i Fratelli aveva relazioni solide, contrariamente ai sauditi che, freddi nei confronti degli antichi rivali per il controllo del campo politico e religioso sunnita, avevano blandito forze di matrice salafita.
Ma l’esito più drammatico del paesaggio dopo la battaglia egiziano, rinvia alla questione della democrazia e del jihad. I Fratelli che avevano accettato dopo un lungo dibattito l’idea del consenso elettorale come via per governare: dovranno fare ora i conti con il canto delle sirene salafite e le loro tesi sull’impossibilità per forze islamiste di credere nella democrazia.
Resisterà la Fratellanza, che pure afferma di non riconoscere il regime nato dal golpe ma non per questo vi si opporrà con la violenza, alla spinta centrifuga di questi gruppi, convinti dell’impossibilità di aderire a un sistema politico intriso di cultura occidentale e teorici del jihad come fattore di violenza fondativa? O subirà un’emorragia a favore dei gruppi più radicali?
La pesante battuta d’arresto dell’islam neo-tradizionalista annuncia, una stagione di nuovi equilibri e, forse, vecchie scelte, Lo si vedrà chiaramente nei prossimi mesi.

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