da: la Repubblica
Alcuni li chiamano talpe, o peggio spie.
Altri evocano le gole profonde che negli anni ’70 permisero ai giornali di
scoperchiare il Watergate. Sono i tecnici dei servizi segreti o i soldati o gli
impiegati che rivelano, sui giornali, le illegalità commesse dalle proprie
strutture di comando, dunque dallo Stato.
Oggi tutti questi appellativi sono inappropriati. Non servono a indovinare
uomini come Edward Snowden o Bradley Manning: le loro scelte di vita estreme,
inaudite. Non spiegano la crepa che per loro tramite si sta aprendo in un
rapporto euroamericano fondato sin qui su silenzi, sudditanze, smorte lealtà.
Continuare a chiamarli così significa non
capire la rivoluzione che il datagate suscita ovunque nelle democrazie, non solo in America; e il colpo
inferto a una superpotenza che si ritrova muta, rimpicciolita, davanti alla
cyberguerra cinese.
Già nel 2010 fu un terremoto: i tumulti arabi furono accelerati dai segreti che
Manning e altri informatori rivelarono a Wikileaks sui corrotti regimi locali,
oltre che sui crimini di guerra Usa. Ora è il nostro turno: senza Snowden,
l’Europa
non si scoprirebbe spiata dall’Agenzia nazionale di sicurezza
americana (NSA), quasi fossimo avversari bellici. Perfino il ministro della Difesa
Mario Mauro, conservatore, denuncia: «I rapporti tra alleati saranno
compromessi, se le informazioni si riveleranno attendibili ». In un’intervista
su questo giornale a Andrea Tarquini, il direttore del settimanale Die Zeit Giovanni di Lorenzo è più esplicito: «Snowden ha voluto mostrare
all’opinione pubblica come i servizi segreti possono mentire, e le reazioni
positive dei tedeschi al suo tentativo sono un cambiamento fondamentale per il
mondo libero. Un terzo dei cittadini si dice disposto a nascondere Snowden. Un
terzo, fa un grande partito».
Chiamiamoli dunque con il nome che Snowden e Manning danno a se stessi: whistleblower, cioè coloro che lavorando per un servizio o una ditta non
smettono di sentirsi cittadini democratici e soffiano il fischietto, come l’arbitro in una partita, se in casa scorgono misfatti. La costituzione è
per loro più importante delle leggi d’appartenenza al gruppo.
Sono i cani da guardia delle democrazie, e somigliano ai rivoluzionari d’un
tempo. Vogliono trasformare il mondo, rischiano tutto. Snowden dice: «Non
volevo vivere in una società che fa questo tipo di cose. Dove ogni cosa io
faccia o dica è registrata». Sono convinti che l’informazione, libera da ogni
condizionamento, sia la sola arma dei cittadini quando il potere agisce, in
nome del popolo e della sua sicurezza, contro il popolo e le sue libertà. Come
i rivoluzionari sono ritenuti traditori, da svilire anche caratterialmente.
Infatti sono liquidati come nerd: drogati da internet, narcisisti,
impo-litici, asociali. Ben altra la verità: le notizie date a Wikileaks
usano entrare nella filiera «tradizionale», trovando sbocco su quotidiani ad
ampia diffusione, attraverso articoli di giornalisti investigativi (è il caso
di Glenn Greenwald del Guardian, cui Snowden s’è rivolto). Non sono rivelati, inoltre, i
documenti altamente confidenziali. Siamo nell’ambito dell’atto di coscienza per
il bene collettivo, non di gesti isolati di individui fuori controllo.
È utile conoscere il tragitto dei moderni whistleblower. Il soldato Manning
a un certo punto non ce la fece più, e passò al fondatore di Wikileaks Assange
documenti e video su occultati crimini americani: l’attacco aereo del 4 maggio
2009 a Granai in Afghanistan (fra 86 e 147 civili uccisi); il bombardamento del
12 luglio 2007 a Baghdad (11 civili uccisi, tra cui 3 inviati della Reuters. Il
video s’intitola Collateral Murder, assassinio collaterale). Accusato
di alto tradimento è l’informatore, non i piloti che ridacchiando freddavano
iracheni inermi. Arrestato e incarcerato nel maggio 2010, Manning è sotto
processo dal 3 giugno scorso. Un «processo- linciaggio», nota lo scrittore
Chris Hedges, visto che l’imputato non può fornire le prove decisive. I
documenti che incolpano l’esercito Usa restano confidenziali; e gli è vietato
invocare leggi internazionali superiori alla ragione di Stato (princìpi di
Norimberga sul diritto a non rispettare gli ordini in presenza di crimini di
guerra, Convenzione di Ginevra che proibisce attacchi ai civili).
Gli stessi rischi, se catturato, li corre Snowden, ex tecnico del NSA: ne è
consapevole, come appunto i rivoluzionari. A differenza delle vecchie gole
profonde, i whistleblower militano per un mondo migliore. Sono molto
giovani: Snowden ha 30 anni, Manningne aveva 22 quando mostrò il video a
Wikileaks. Sono indifferenti a chi bisbiglia smagato: «Spie ce ne sono state
sempre». Non fanno soldi. Alcuni agiscono all’aperto: Snowden ha contattato
Greenwald, che da anni scrive sul malefico dualismo libertà-sicurezza. Altri
rimangono anonimi finché possono, come Manning. Daniel Ellsberg, il rivelatore
dei Pentagon Papers che nel ’71 accelerò la fine dell’aggressione al
Vietnam, può essere considerato il capostipite dei whistleblower.
Per lui Snowden è un eroe. Quel che ci ha dato è la conoscenza: esiste
un’Agenzia, che nel buio sorveglia milioni di cellulari e indirizzi mail in
America e nel mondo.
È vero quello che dice il direttore della Zeit: il giudizio dei
cittadini tedeschi su Snowden segnala mutamenti profondi, il cui centro è un
nuovo tipo di informazione, che passa attraverso la stampa ma nasce in
internet. Il giornalista Denver Nicks, autore di un libro su
Manning, sostiene che lo spartiacque fu il video Collateral
Murder: «È l’inizio dell’era dell’informazione che esplode su se stessa ».
L’era dell’informazione sveglia il mondo libero, e non libero. Grazie a
Snowden, e a giornalisti come Greenwald, l’Europa s’accorge di essere terra di
conquista per l’America, trattata come Mosca trattava i paesi satelliti.
Leggendo i rapporti dei servizi Usa pubblicati da Spiegel, i tedeschi scoprono di esser chiamati “alleati di terza classe”: non partner,
ma infidi subordinati. La crisi dell’euro ha spinto Obama non a promuovere la
federazione europea come l’America postbellica, ma a spiare i Paesi, le loro
liti, le comuni istituzioni.
Indignarsi per l’intrusione imperiale non basta. Né basta rifiutare gli F-35. È
su se stessa che l’Europa deve gettare uno sguardo indagatore, trasformatore,
se vuol svegliarsi dal sonno che l’imprigiona in un atlantismo degenerato in
dogma, e che la condanna a restare sempre minorenne. Un’Unione priva di una sua
politica estera e di difesa, viziata per decenni dalla tutela americana: questo
è sonno dogmatico. Come ipnotizzati, gli europei hanno partecipato alle guerre
Usa anti-terrorismo senza mai domandarsi se avessero senso, se fossero
vincibili.
Senza mai ridiscuterle con l’alleato. Senza chiedersi – oggi che regna Obama –
se i droni che uccidono a sorpresa (i targeted killing in zone
belligeranti e non: Afghanistan, Iraq, Pakistan, Yemen, Somalia) siano
internazionalmente legali. Dogmaticamente digeriscono una Nato che serve solo
gli Usa, quando serve. È stato necessario Snowden per capire che gli Usa
offendono la legalità che pretendono insegnare al mondo, e screditano le democrazie
tutte.
Il 4 luglio, tanti americani celebreranno la Dichiarazione d’indipendenza
manifestando in difesa dell’articolo 4 della Costituzione, che vieta allo Stato
di interferire nelle vite dei cittadini. Anche per l’Europa è ora di dichiarare
l’indipendenza dall’alleatosegugio. Se avesse coraggio, esaudirebbe il
desiderio di quel terzo di cittadini tedeschi che vuol offrire rifugio a
Snowden, e protesterebbe contro il linciaggio giuridico di Manning.
Non troverà questo coraggio. Ma potrebbe accorgersi che i suoi cittadini,
tutt’altro che minorenni male informati, la pensano diversamente. Orfani di una
sinistra che trasforma il mondo, gli europei sono privi di propri whistleblower.
È sperabile che ne avremo anche noi.
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