da: Il Fatto Quotidiano
Caro Monti, e i requisiti digitali?
di Peter Kruger
Sorpresa! Pare che il governo abbia qualche
difficoltà a nominare il futuro capo dell’Agenzia per l’Agenda Digitale. In un
paese civile sarebbe bastata una nomina politica (ossia con una chiara assunzione
di responsabilità politica), ma da noi, si sa, certe cose non sono mai andate
di moda, e così il governo Monti ha deciso che il prossimo capo dell’Agenzia
debba essere selezionato attraverso una gara pubblica. Lo rivela Massimo
Sideri in un articolo, comparso qualche giorno fa sul Corriere della Sera, in
cui vengono anche delineati i principali requisiti che dovrebbero essere
soddisfatti dai candidati.
In realtà, Sideri arriva a far intendere
che i due principali requisiti – una solida presenza manageriale in grandi
aziende del settore, combinata con importanti esperienze nella Pubblica
Amministrazione – siano stati individuati appositamente per far posto a Stefano
Parisi, ex amministratore delegato di Fastweb, oggi Presidente di Confindustria
Digitale.
Ora, come già scritto tempo addietro su
questo medesimo blog, rimarremo
grati a Monti in eterno per aver salvato questo disgraziato
Paese dal baratro, per non parlare del ruolo che il Presidente del Consiglio
sta giocando nella risoluzione della crisi dell’eurozona. Tuttavia, occorre
riconoscere che quando si tratta di materie digitali, il nostro attuale
governo si smarrisce con una certa facilità: prima la scelta abortita di
nominare un sottosegretario all’agenda digitale (mai arrivato), poi la mancata
nomina di un professionista della rete tra i commissari dell’Agcom (dalla rete
chiedevano addirittura di metterne uno a capo dell’autorità), per non parlare
del continuo balletto tra ministeri attorno al tanto atteso decreto DigItalia
con le misure che dovrebbero finalmente dare a questo Paese uno stralcio di
agenda digitale (in ritardo decennale rispetto a tutti gli altri maggiori paesi
avanzati). Ora, mancava solo quest’altro pasticcio con la nomina del capo
dell’Agenzia per l’Agenda Digitale.
Sarà per l’età media della compagine
governativa (piuttosto avanzata), o sarà perché nessuno tra i ministri ha una
qualche reale esperienza nel mondo dei servizi digitali, tant’è che il governo
sembra veramente arrancare su questi temi. Del resto, se confermata, l’idea
stessa di nominare Stefano Parisi lascia non pochi dubbi. Per carità, stiamo
parlando di un professionista con una lunga esperienza nel settore
dell’information technology (It) e con una consolidata presenza tra i gangli
del potere delle associazioni e delle grandi imprese di telecomunicazioni. O
forse proprio per questo. Le telecomunicazioni stanno a Internet e all’economia
digitale, un po’ come gli impianti idrici di irrigazione stanno alle nostre
abitudini alimentari: sono infrastrutture necessarie ma rappresentano appena
una parte, neppure la più rilevante, dell’intero ecosistema. Detto in altre
parole, il superamento del digital divide o la realizzazione di reti
ultra-veloci sono senz’altro questioni importanti ma di soluzione relativamente
facile rispetto alle vere sfide che deve affrontare il Paese:
dall’alfabetizzazione digitale, allo sviluppo di un ecosistema di imprese
innovative (startup), dalla diffusione dell’economia digitale, alla
razionalizzazione dell’offerta di servizi della Pubblica Amministrazione, dalla
formazione di giovani competenze professionali di settore, alla semplificazione
normativa dalla giungla di vincoli e sanzioni che frustrano continuamente
l’introduzione di soluzioni innovative per risolvere i problemi e dare nuove
opportunità alle persone e alle imprese.
La sensazione è che il governo Monti non
abbia realmente idea del percorso che l’Italia debba affrontare per mettersi al
passo con lo sviluppo digitale del resto dei paesi avanzati (di qualche giorno
fa la notizia che
siamo appena al 23° posto del Web Index, la classifica dei paesi più
digitalizzati). E, allora, per dare un contributo costruttivo, ci permettiamo
di indicare quei pochi requisiti che, a nostro avviso, dovrebbero informare il
bando (se proprio ad un bando si debba ricorrere).
In primo luogo, assicuriamoci di
individuare una persona che provenga realmente dal mondo della rete. Il tempo
dei grandi tecnici It è finito. Hanno già dato a questo paese, senza ottenere
nulla. Servono invece profili che conoscano il lessico della cultura digitale,
che siano riconosciuti come appartenenti alla comunità della rete, che sappiano
comprendere i problemi reali incontrati da cittadini e imprese, e che abbiano
dimostrato di saper alimentare le innovazioni dal basso, attraverso l’inclusione
e la partecipazione. Serve una persona, insomma, che non si limiti a
chiacchierare di innovazione digitale ma che la sappia fare, e anche usare.
Evitiamo, per favore, quei presunti esperti digitali che si fanno mandare le
mail dalle segretarie o che non hanno mai fatto una chiamata con Skype.
Ben venga una forte esperienza nelle grandi
imprese di settore o nella pubblica amministrazione, ma a patto che queste
esperienze provino l’effettiva capacità di fare innovazione digitale su scala
sistemica (non quella a chiacchiere dei convegni di IT che infestano questo
Paese). Insomma, l’esperienza sia valutata per la provata abilità di saper
usare le tecnologie digitali per generare impatto (misurabile) su cittadini e
imprese a livello nazionale o internazionale.
Al tempo stesso, è importante che il
candidato abbia anche una vera esperienza di startup. Le startup sono il cuore
pulsante dell’innovazione digitale. Il resto è solo innovazione a chiacchiere
che di sostanziale ha solo i contratti milionari con la Pubblica
Amministrazione o delle concessioni governative. L’esperienza di startup
tornerà utile al vincitore del bando anche perché il compito immane che lo
attende potrà avere successo solamente se il suo lavoro sarà inteso come
l’avvio di un’impresa innovativa, appunto una startup (anche se in ambito
pubblico). Se ricadiamo nelle solite pastoie burocratiche della pubblica
amministrazione o nella grande abbuffata di interessi, in cui, storicamente, è
sempre annegata qualunque iniziativa volta ad innovare il sistema , allora
tanto meglio lasciar perdere.
Infine, assicuriamoci che il candidato
abbia un minimo di esperienza internazionale di rilievo ed evitiamo come la
peste coloro che vendono idee originali che nessun altro paese
ha ancora sperimentato. L’Italia si sta ancora leccando le ferite per
le fantomatiche fughe in avanti fatte con il digitale terrestre e altre portentose innovazioni,
servite solo ad ingrassare i contratti delle società di consulenza. La verità è
che siamo così in ritardo che dobbiamo solo imparare a copiare velocemente
quello che altri hanno già fatto bene (impariamo dai cinesi che, a forza di
copiare, stanno diventando la più grande potenza industriale al mondo).
Intendiamoci, quando parlo di esperienza internazionale, non mi riferisco a
figure evanescenti come i lobbysti o i funzionari di Bruxelles, ma a persone
che conoscano (e che siano note a) chi l’innovazione la fa veramente in luoghi
come San Francisco, New York, Londra, Berlino, Shangai e nelle altre grandi
aree urbane al centro della rivoluzione digitale.
Per chiudere, evitiamo i tanti “gattopardi”
dell’innovazione che da anni tengono al palo questo Paese spacciandosi per
grandi cavalieri digitali. Meglio allora che il governo non faccia nulla.
L’avanzata della cultura digitale è inesorabile e non si fa fermare certo da
qualche burocrate. Meglio di “cambiare tutto perché nulla cambi” è “cambiare
nulla perché tutto cambi”.
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