da: La Stampa
Alla fine dei soldi
Come si finanzia la politica? Ecco un
quesito in apparenza insolubile. 1) Se diventa hobby gratuito, possono
permettersela soltanto i ricchi. 2) Se a oliarla sono i privati, il politico si
riduce a burattino di qualche lobby come in America (la crisi di questi anni ha
origine dall’abolizione di un decreto legislativo che saggiamente impediva alle
banche commerciali di essere anche banche d’affari, imposta a Clinton nel 1999
dai sovvenzionatori delle sue campagne elettorali, residenti a Wall Street). 3)
Se si persiste nel fare pagare i lussi della politica ai cittadini, prima o poi
arriveremo alla rivoluzione o alla dittatura (un’ipotesi non esclude l’altra),
dato che risulta sempre più indigesto sfogliare le note spese a fisarmonica di
Fiorito quando a tua madre riducono la pensione sociale di 20 euro. Le opzioni
che ho numerato sembrerebbero alternative, ma in Italia - culla della
creatività - abbiamo costruito un modello che condensa i difetti di tutte e
tre: qui la politica la fanno i ricchi e le lobby con il denaro dei
contribuenti.
La soluzione del rebus è davvero
impossibile? Forse una chiave ci sarebbe. Sì al finanziamento pubblico, a patto
che l’intero sistema dei partiti si sottoponga a una energica cura
disintossicante (meno parlamentari nazionali e locali, meno rimborsi, nessun
condannato per corruzione fra i candidati) e al controllo capillare di un
ufficio composto da efferati ragionieri super partes, nominati a rotazione dal
presidente della Repubblica. Se qualcuno avesse un’idea migliore la dica ora, o
mugugni per sempre.
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