da: Il Fatto Quotidiano
A
Milano sfila la moda donna primavera-estate, ma il lusso corre già a Parigi
Dal
19 al 25 settembre i marchi del prêt-à-porter si confronteranno sulle
passerelle del capoluogo lombardo anche se sono i grandi gruppi francesi a
dettare legge nei défilé internazionali. Come Lvmh di Bernard Arnault o Ppr di
Francois Pinault. Due magnati che non dimenticano una delle chiavi di successo:
investire in pubblicità
Milano si prepara a essere “fashion”. O
almeno a sembrarlo. Nella settimana dal 19 al 25 settembre i grandi marchi
della moda presenteranno infatti le collezioni
Primavera-Estate 2013. Anche a dispetto della crisi. Già perché il lusso delle passerelle, che sia
prêt-à-porter o haute couture, non
soffre affatto lo spread e la stretta del credito. I signori del lusso
possono contare infatti su un business con una redditività attorno al 20 per
cento. Un livello lontanissimo da quello di altri comparti industriali come i
trasporti (7,5% il margine nel 2011 per il colosso Alstom) o quella della
grande distribuzione (per Carrefour il margine è attorno al 2,5 per cento).
Ma chi sono i veri padroni delle
passerelle? Se nelle cronache tiene banco il pettegolezzo (Jil Sander che sfila
fuori dal calendario o Dolce&Gabbana e Giorgio Armani che si sovrappongono
in un appuntamento domenicale), i grandi gruppi francesi dettano legge nei
défilé internazionali. E’ a Parigi infatti che prosperano gruppi come Lvmh,
leader induscusso del lusso e lo scorso anno protagonista dell’acquisizione di
Bulgari, con un valore di mercato da 66 miliardi (con 23,7 miliardi di
fatturato, in crescita del 16% e 3 miliardi di utile) o Ppr (16 miliardi di
valore di mercato con un fatturato da 12 miliardi, in salita del 12% e un utile
da un miliardo con un boom del 26%). Semplicemente giganti rispetto alle più
importanti società italiane della moda quotate: Luxottica esclusa, i due più
grandi gruppi di Piazza Affari, Tod’s e Salvatore Ferragamo valgono appena 2,6
miliardi.
La sola Lvmh, che fa capo Bernard Arnault,
l’uomo più ricco di Francia, secondo la rivista Challenges, con un patrimonio
da 21 miliardi e interessi che spaziano dalla distribuzione al mattone fino
all’editoria (è suo il primo quotidiano economico d’Oltralpe, Les Echos), ha un
portafoglio da ben 50 marchi del lusso fra cui Dior, Fendi, Louis Vuitton,
Emilio Pucci, Tag Heuer, Bulgari. Ultima in ordine di tempo, la
polemica fra il magnate e il quotidiano Liberation che, dopo avergli dedicato
una copertina al vetriolo (“Vattene ricco coglione”), si è visto ritirare
150mila euro di pubblicità. E anche la Ppr di Francois Pinault, il
numero sei nella top ten dei più ricchi di Francia con la passione per Venezia
e l’arte moderna, può contare su marchi come Gucci, Bottega Veneta, Brioni,
Sergio Rossi, Stella McCartney.
Con una potenza di marchi di questo livello
(con tanto di grande budget pubblicitario annesso e connesso), si capisce bene
perché la stampa internazionale, specie quella statunitinese, chieda a Milano
di comprimere il calendario della settimana della moda per poter correre alla
volta di Parigi dove le sfilate inizieranno mercoledì 25 settembre con nomi già
noti al grande pubblico come Fàtima Lopes, Moon Young Hee, Jean Paul
Lespagnard. E si comprende quindi anche perché grandi maison italiane come
Valentino o Versace, cogliendo l’opportunità di una vetrina internazionale per
la stampa, preferiscano per le proprie sfilate la Tour Eiffel alla città
meneghina.
E se tutto questo non bastasse a raccontare
una Milano figlia di un dio minore della moda, servirà forse anche aggiungere
che persino le istituzioni si tirano indietro: il Comune ha deciso di
rinunciare alla “Milano fashion City”, una serie di manifestazioni a latere
delle sfilate lungo tutto il mese di settembre dedicate alla filiera moda. «A
differenza dei francesi, in Italia non c’è una compagnia di bandiera che fa sconti
ai buyers nelle giornate della moda» spiega un operatore lamentando i costi per
partecipare all’evento. Forse è anche colpa del fatto che le case italiane non
hanno saputo fare quadrato e, alla fine dei conti, preferiscono farsi guerra
piuttosto che fare sistema.
Così a dispetto della presenza di grandi
marchi come Giorgio Armani, Dolce&Gabbana, Roberto Cavalli, l’Italia, nel
suo insieme, resta indietro nel sopraffino business del lusso. “Da tempo avevo
in mente il passaggio a una dimensione più grande perché sono convinto che oggi
per avere successo bisogna unire artigianalità e creatività a una massa critica
con un’ importante leva finanziaria e organizzativa – ha spiegato Francesco
Trapani, ex ad di Bulgari e oggi responsabile delle divisione gioielleria in
Lvmh, all’indomani dell’incorporazione della maison italiana nel gruppo
francese – In questa chiave uno dei progetti prevedeva un’aggregazione
italiana. Ma alla fine gli italiani preferiscono giocare un gioco più piccolo
pur di non perdere il controllo totale delle loro azienda”.
Come dar torto a Trapani? I vantaggi di un
grande gruppo ci sono e come. “Sono di due tipi: location e spazi pubblicitari
– precisa il numero uno di un grande gruppo francese – Con un portafoglio che
comprende diversi marchi del lusso da un lato è più facile trovare le locali
commerciali adeguati alle boutique a prezzi interessanti e dall’altro anche gli
acquisti in pubblicità (da cui ormai dipende la sopravvivenza dei giornali,
ndr) avvengono a costi più contenuti rispetto a quelli che può spuntare un solo
brand del lusso”. Un fatto non da poco se si pensa che un colosso come Lvmh ha
investito in pubblicità e promozione 2,7 miliardi, quasi il doppio di quanto
spende per gli affitti delle boutique in giro per il mondo. Un budget di cui
una fetta è in mano direttamente agli uffici stampa che hanno contatti con i
media.
Un impegno consistente anche se si guarda
al solo caso italiano. Il lusso complessivamente, secondo uno studio di
Pambianco pubblicato ad aprile 2012, spende circa 700 milioni di euro l’anno in
pubblicità solo sulla carta stampata del nostro Paese. Si tratta di un terzo della
spesa complessiva effettuata in Italia nel corso del 2011. Il
primato per investimenti pubblicitari va a Prada con quasi 20 milioni di euro,
ma se si sommano i soli primi quattro marchi del gruppo Lvmh (Louis Vuitton,
Dior, Fendi e Bulgari), nella lista dei primi cinquanta investitori, ecco che
la cifra messa sul piatto da Prada è rapidamente superata con un totale da 21
milioni.
Ma dove vanno a finire tutti questi denari
del lusso? Ebbene gli importi più consistenti non sono andati, come sarebbe
facile immaginare, a magazine di moda o femminili quanto piuttosto a giornali
come Il Corriere della Sera (89,4 milioni di euro nel 2011,+32% rispetto al
2010) e La Repubblica (81 milioni, +31%). O ancora Il Sole24ore (45,9 milioni,
-3,6%) che si piazza però dopo Vanity Fair (50,8 milioni) e D La Repubblica
delle Donne (49,5 milioni). Cifre interessanti se si pensa che nel 2011 la
raccolta pubblicitaria complessiva della divisione Quotidiani Italia di Rcs, di
cui fa parte il Corriere, consisteva in 283 milioni di euro. In altre parole,
un terzo della pubblicità 2011 di questa sezione del gruppo, di cui è socio
Diego Della Valle, amico di Arnault e consigliere del gruppo Lvmh, viene dal
lusso. Per l’intero gruppo Editoriale L’Espresso, che edita La Repubblica, i
ricavi pubblicitari si sono attestati invece a 534 milioni, mentre il Gruppo
Sole24 si è fermato a 171,8 milioni, pari al 36,7% dei ricavi complessivi.
Insomma, basta guardare i numeri della sola
carta stampata per rendersi conto delle relazioni pericolose che esistono fra
lusso, moda e media. E pensare che ingenuamente Maurizio Romiti si è detto
convinto di poter far rinascere la tradizione italiana della moda con tre
marchi. Nel caso dell’ex manager Rcs, i tre brand in questione sarebbero le
cravatte di D’Annunzio, Nicky, il cappellificio del papa Barbisio (Cervo è il
nome della ditta) e la pelletteria di lusso di Longhi. Forse qualcuno dovrebbe
spiegare a Romiti che, quando Lvmh ha ripreso in mano le redini di Fendi, ci ha
messo tre anni per rilanciarla e farne una star. Loro che il mestiere del lusso
lo conoscevano bene. E i capitali li avevano in tasca disponibili.
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