da: la
Repubblica
L'autunno dello scontro nelle piazze che non vedono i frutti delle rivoluzioni
di Gilles Kepel
Il
sanguinoso attentato di Bengasi, avvenuto la notte dell’undicesimo anniversario
dell’11 settembre, ricorda al mondo che il terrorismo d’ispirazione islamica
non è scomparso dopo le rivoluzioni arabe. Al di là della fascinazione
tradizionale di Al Qaeda per i numeri simbolici, bisogna soprattutto notare che
l’uccisione di quattro diplomatici americani, fra cui l’ambasciatore
in Libia, avviene in un paese in cui la dittatura di Gheddafi è
stata abbattuta grazie all’aiuto eccezionale degli eserciti
occidentali, fra cui quello degli Usa.
E che
l’attacco ha avuto luogo a Bengasi, città simbolo dell’alleanza
fra i paesi occidentali e i rivoluzionari arabi, poiché proprio lì, il 19 marzo
2011, l’aviazione francese ha bombardato i carri armati di Gheddafi, salvando
la città e la rivoluzione.
Questo
simbolo è naturalmente disastroso per l’avvenire della Libia e interviene
proprio mentre molti, in Occidente, s’interrogano sul futuro delle rivoluzioni
arabe, si chiedono se non abbiano lasciato uscire, come la bottiglia di Sinbad
il marinaio, il cattivo genio dell’islamismo radicale.
In
Tunisia ci si pongono molte domande sullo sviluppo del movimento salafita, di
cui ho potuto misurare la presenza in un luogo molto simbolico: la città di
Sidi Bouzid, dove sono cominciate le rivoluzioni arabe con l’immolazione di
Mohamed Bouazizi il 17 dicembre 2010. Di sabato, a Sidi Bouzid, i salafiti
svolgono il ruolo della polizia nel suk e sono loro a controllare la più
importante moschea della città. Un ex di Al Qaeda è il maitre à penser di Ansar al Sharia, organizzazione che porta lo stesso nome di
quella libica che ha rivendicato l’attentato contro il consolato americano.
E’
importante anche sottolineare quali armi sono state utilizzate, armi da guerra.
Sono stato a Bengasi ai primi di luglio e sono stato impressionato
dall’arsenale militare eccezionale di cui dispongono le milizie e i
“rivoluzionari” sul posto. La Cirenaica, di cui Bengasi è la metropoli, è la
regione in cui c’è stata una forte resistenza islamica sotto il regime di
Gheddafi. Non lontano da Bengasi, la città di Derna ha avuto proporzionalmente
il più gran numero di combattenti in Afghanistan e di prigionieri a Guantanamo.
Ciò nonostante, alle elezioni del Parlamento libico, il 7 luglio scorso, i
movimenti islamici, contrariamente all’Egitto e alla Tunisia, non hanno
conquistato la maggioranza. Il movimento islamista libico è profondamente
diviso e frammentato in una miriade di partitini. La principale figura
dell’islamismo libico, Abdel Hakim Belhadj, non è riuscito a essere eletto
deputato, malgrado si sia sforzato di presentarsi come rappresentante di un
partito democratico. La maggior parte dei suoi adepti, a causa del mancato
successo salafita, ha ritrovato la strada della clandestinità e della lotta
armata, resa più facile dalla debolezza dello Stato centrale e dagli
impressionanti armamenti ancora in mano alle diverse fazioni rivoluzionarie. A Bengasi
molti pensano che Tripoli abbia spoliato la città del suo ruolo pioniere nella
rivoluzione e recuperato tutti i poteri: l’insieme di queste circostanze spiega
perché proprio li è stato possibile l’attentato anti-americano.
Certo, si
tratta di un colpo durissimo per la ricostruzione della Libia, poiché il pretesto
di questo attentato è stata la diffusione su internet di un film
accusato di oltraggiare il Profeta dell’islam, un po’ come le caricature
apparse nel 2005 sul giornale danese Jyllands-Posten.
Nel mondo
arabo ci sono manifestazioni sanguinose non per condannare l’attentato, ma per
protestare contro un nuovo affronto che sarebbe stato fatto all’islam. Le voci
di piazza dicono che il film è stato finanziato da un copto e da un
israeliano-americano, il che rende più acute le tensioni in Egitto, dove la
comunità copta resta traumatizzata dalla vittoria di Mohamed Morsi. Anche in
Tunisia, dove i salafiti hanno denunciato il film, un partito laico ha emesso
un comunicato per denunciare l’oltraggio al sacro e al Profeta.
Tutto ciò
mostra come l’opinione pubblica araba possa essere mobilitata da agitatori
politici attorno alle questioni del sacro e come Al Qaeda, che si pensava
oscurata dalla primavera araba, sia capace, insieme ai salafiti, di
tornare alla ribalta, forse temporaneamente. Lo fa approfittando delle
frustrazioni e dello scontento di popolazioni che un anno e mezzo dopo la
caduta dei tiranni hanno l’impressione di non aver ricevuto nessun frutto
della rivoluzione: la disoccupazione e la miseria aumentano, la più
grande libertà non impedisce fatti tragici come il naufragio, pochi giorni fa,
di 50 clandestini tunisini al largo di Lampedusa.
E’
d’altronde significativo che il primo cadavere recuperato dai soccorritori
italiani sia stato quello di un ragazzo proveniente da Sidi Bouzid, la città
simbolo della rivoluzione. In arabo fuggire verso l’Europa si dice harragache,
vuol dire letteralmente bruciarsi: è lo stesso termine utilizzato per
descrivere l’immolazione di Mohamed Bouazizi.
Nessun commento:
Posta un commento