da: Il Sole 24 ore
Hollywood Reporter tuona,
Garrone stressato: i papocchi della giuria di Venezia69
di
Boris Sollazzo
Venezia, l'alba del giorno dopo ci porta
polemiche vecchie e nuove. Quelle antiche sono legate ai 14 anni di assenza
dall'albo (dei leoni) d'oro di un film italiano. Con un certo provincialismo e una voluta incapacità di ammettere che il nostro
cinema è (ormai, ancora?) di retroguardia, continuiamo a dolerci
dell'ingiustizia perpetrata ormai da quasi tre lustri. Si inneggia a giurati di
alto profilo, si pretende, giustamente, che siano integerrimi quanto famosi,
poi però li si attacca regolarmente per non aver premiato
"l'italiano".
A guardare i report di stampa, peraltro, a
questi giudici per undici giorni non sfugge la schizofrenia di queste posizioni
se è vero che Matteo Garrone
promette, a caldo, "non farò mai più il giurato". Poi aggiunge
prudentemente "almeno in Italia". Come dargli torto? Pensate al presidente Michael Mann e una solerte e
un po' servile Samantha Morton a zittirlo mentre un giornalista gli chiede dei
film italiani.
Secondi di tensione in cui l'unico che s'è
veramente comportato con classe è proprio il regista di Gomorra e Reality, che
ha osservato obbedienza a un consesso con cui evidentemente non era molto
d'accordo- voci dicono che gli altri lo considerassero "troppo
patriottico"- e che poi ha dichiarato "non m'hanno zittito, mi hanno
protetto, in quel momento mi si voleva mettere in mezzo". E in effetti
anche
il cronista che prova a tendergli il tranello gran figura non ci fa. Fa una pessima figura anche The Hollywood Reporter, una delle testate più importanti del Nord America, e tra quelle specializzate nel cinema faro in tutto il mondo. Con la scritta "Esclusiva" svela, o meglio lascia intuire in un articolo piuttosto farraginoso e fin troppo sintetico, che in giuria si volevano addirittura dare tre premi a The Master (leone d'oro, regia e attori: o comunque due, ma con il primo premio tra essi) e che una "fronda" legata alle regole del Festival lo avrebbe impedito, portando alla scela di compromesso di Pietà di Kim Ki-Duk.
il cronista che prova a tendergli il tranello gran figura non ci fa. Fa una pessima figura anche The Hollywood Reporter, una delle testate più importanti del Nord America, e tra quelle specializzate nel cinema faro in tutto il mondo. Con la scritta "Esclusiva" svela, o meglio lascia intuire in un articolo piuttosto farraginoso e fin troppo sintetico, che in giuria si volevano addirittura dare tre premi a The Master (leone d'oro, regia e attori: o comunque due, ma con il primo premio tra essi) e che una "fronda" legata alle regole del Festival lo avrebbe impedito, portando alla scela di compromesso di Pietà di Kim Ki-Duk.
Intendiamoci, è possibilissimo: a Cannes, nel 2005, i Dardenne vinsero con L'enfant che, per stessa ammissione del
presidente di allora, Emir Kusturica, era il frutto di un compromesso al
ribasso per la spaccatura tra i giurati su chi premiare. "Non ha vinto il
migliore" dichiarò.
I motivi sono molti, tra cui sicuramente la
pressione esagerata sui giurati italiani a Venezia: basta ricordare il
linciaggio operato su Mario Monicelli - e Stefano Accorsi - quando Buongiorno,
notte non entrò nel palmares in favore del russo Il ritorno. In quel caso il
verdetto era giusto, ma ciò non tolse che i due, e soprattutto il regista
viareggino, subirono attacchi feroci.
L'articolo dell'Hollywood Reporter di
Matthew Belloni ha come base quel regolamento
che impedirebbe più premi per un
titolo, regola bizantina e incomprensibile che complica da sempre le
discussioni di questi consessi cinematografici. Successe nel 2008 che l'acclamato Mickey Rourke non avesse preso la Coppa
Volpi- in favore di Silvio Orlando - perché era stato assegnato il Leone d'oro
al film di cui era protagonista, The
Wrestler e diverte, poi, che il ben più imbarazzante Tarantino che premia l'ex compagna Sofia Coppola per Somewhere due anni fa, sempre al Lido, non abbia suscitato altrettanta
indignazione oltreoceano. La tensione di questo Venezia69, nella segreta
stanza di chi giudicava, comunque, si è avvertita. Anche nelle facce dei nove
sul palco. Tese, se si esclude la sorridente e solare Laetitia Casta. E lo
stesso Mann si è tenuto a una (auto)disciplina molto forte, persino nelle dichiarazioni
finali (mentre nella Cannes citata, invece, i giurati sciolsero la lingua a
giochi fatti).
Si potrebbe, forse, fare come in alcune
gare sportive che prevedono i giudici come elemento decisivo: impedire di
esprimersi a chi di loro è della stessa nazionalità del "premiabile",
oppure escludere gli estremi a ogni votazione, senza cercare l'unanimità. E a chi accusa Venezia del fatto che Cannes
invece premia i suoi francesi, facciamo notare che ne seleziona sempre forse uno o due di troppo (ma anche noi,
quest'anno siamo stati generosi: meritava il concorso solo Bellocchio, comunque
sopravvalutato) ma, poi, i riconoscimenti non sono particolarmente generosi se
si esclude il Cantet de La Classe. Sconfisse film fenomenali, forse proprio per
un altro compromesso al ribasso. Ma ancora grida vendetta, per esempio, il
magnifico Il profeta di Jacques Audiard, rimasto a bocca asciutta in Costa
Azzurra.
Come nel nostro caso, in fondo, anche lì la
giuria non se ne va a mani vuote e qualche premio minore esce fuori sempre per
i padroni di casa. A Venezia le coppe Volpi - o i premi agli attori rivelazione
- ad attori italiani come se piovesse in questi 14 anni, ne sono una
testimonianza. E gli italiani comincino a rinunciare al privilegio (?) di
giudicare i colleghi sul Lido: il loro sforzo non viene apprezzato e, forse,
una diserzione del genere farebbe passare la voglia ai dietrologi di sparare su
chi decide.
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