da: https://www.corriere.it/
- di Massimo Franco
Dall’Umbria un segnale
chiaro ma con conseguenze incerte
Il messaggio di elettori e elettrici è
inequivocabile. Le ricadute nazionali molto meno. Dopo alcune città umbre, una destra nel segno di Matteo Salvini si
prende anche la regione, per quasi mezzo secolo in mano alla sinistra: una
rivoluzione anche simbolica, col definitivo spostamento di voti e blocchi
sociali. L’alleanza tra M5S e Pd riemerge invece sgualcita. Il partito di Nicola Zingaretti perde la
«sua» Umbria, e voti rispetto alle
Europee di maggio. Ma è soprattutto
il grillismo, motore del cambiamento nazionale appena un anno e mezzo fa, a
ridursi a percentuali da declino, lasciando per strada due voti su tre rispetto
al 2018: segno di un elettorato arrabbiato e volatile. È stato certamente
anomalo il rilievo nazionale attribuito a un voto regionale che riguardava poco
più di settecentomila elettori. Ma anomalo lo è stato per tutti, non solo per
una destra che accarezzava in anticipo la vittoria. In fondo, e forse è il dato
più positivo, lo è stato anche per chi ha votato: una crescita della partecipazione del tredici per cento rispetto al
2015 certifica una voglia di contare sorprendente per gli stessi partiti.
L’Umbria ha fotografato una politica nevrotizzata dalle proprie contraddizioni
e insicurezze; ma anche un corpo elettorale deciso a mandare un piccolo grande
segnale di cambiamento.
Gli
scandali nella sanità che hanno coinvolto in anni recenti pezzi della nomenklatura
dem
hanno contribuito a rendere più rapida la scelta di voltare pagina. A questo va
aggiunto il momento particolare che si vive. Era inevitabile che la regione
diventasse l’epicentro dell’attenzione. Per la prima volta una parte della popolazione era chiamata alle urne dopo la crisi della
maggioranza M5S-Lega ad agosto, e la formazione
di una coalizione tra Cinque Stelle e Pd per scongiurare il voto
anticipato.
Il tentativo
di trasferire la nuova alleanza sul piano locale è stato, per forza di cose,
affrettato e in qualche modo improvvisato, disorientando una parte
consistente dell’elettorato. Bisognava capire quanto i calcoli sbagliati di
Salvini sulla possibilità di andare alle urne in piena estate avessero eroso la
sua immagine e, di riflesso, i consensi leghisti; oppure se la sua linea
anti-migranti avrebbe continuato a favorirlo comunque. Il responso è che Salvini
continua a interpretare le pulsioni profonde di una parte importante
dell’Italia.
Quanto al Pd, c’era da capire come fosse stata digerita l’alleanza col Movimento di Luigi Di Maio e la scissione di Matteo Renzi; e
soprattutto se i seguaci di Beppe Grillo
avessero accettato il sodalizio con
Zingaretti. E qui l’analisi diventa frustrante per entrambi. Il M5S doveva
verificare in Umbria le sue possibilità di ripresa dopo il disastro alle
Europee di maggio. La risposta in miniatura che arriva da questa parte
dell’Italia centrale conferma una crisi di voti e di identità dai contorni
strutturali: anche se bisognerà fare la tara a conclusioni affrettate, si delinea una disfatta.
Quella di ieri è stata una consultazione locale con un’indubbia eco
nazionale, alla quale hanno contribuito governo e opposizione. Ma sarebbe una forzatura ridurne l’importanza,
se non altro come linea di tendenza della quale prendere atto. Trasmette
l’istantanea di un Paese dove gli interessi si sono frantumati e radicalizzati.
E i contenitori dei partiti tradizionali, ma anche di alcuni di quelli nuovi,
risentono di una difficoltà crescente a rappresentarli come in passato. Al
momento sembra trarne vantaggio la destra della Lega non più solo padana e dei
Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, con un berlusconismo in affanno e con la
proposta di soluzioni semplicistiche di fronte a emergenze dai contorni
irrisolti.
È una tendenza destinata a durare? Può
darsi, sebbene appena un anno e mezzo fa l’Italia apparisse affascinata dai
Cinque Stelle, mentre adesso sembra voltargli le spalle, delusa. Oggi il M5S si ritrova alle prese con un calo
di voti e con conflitti interni destinati a crescere a ogni sconfitta. Su
questo sfondo, è difficile prevedere se e quanto la «sindrome umbra» corroderà l’alleanza di governo e l’esecutivo
guidato da Giuseppe Conte. Intanto, la sconfitta affonda l’ipotesi di estendere
a città e regioni accordi futuri con la sinistra: l’esperimento è già morto. E
in parallelo si inasprisce lo scontento
dei Cinque Stelle contro Di Maio. A oggi il predestinato degli attacchi
appare lui, nonostante si vedano pochi capi grillini in grado di invertire la
tendenza negativa. Ma c’è da chiedersi se un grillismo già lacerato sarà in
grado di reggere l’ultima onda d’urto senza spaccarsi. A meno che nel Movimento
si cerchi il capro espiatorio a Palazzo Chigi, accusando il premier di
perseguire un’alleanza priva di futuro con un Pd svantaggiato in Umbria: sia
per gli scandali sia per la defezione dei renziani. Ma il dilemma, a questo
punto, riguarda lo stesso Pd, alleato con una forza che sembra in caduta
libera.
Il problema è che alternative a breve se ne
vedono poche. Dalle urne di ieri spunta solo un Salvini con l’aria soddisfatta di chi si è preso una rivincita
sugli ex alleati. E coltiva con più ferocia e determinazione di prima il sogno
di una spallata contro Conte. Ma il
capo della Lega sa che la spallata arriverà semmai dall’interno della maggioranza o
da fattori esterni, magari internazionali, non da lui. Per questo le
conseguenze di medio e lungo periodo sono ancora tutte da decifrare. E la
ricaduta finale rimane incerta.
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