Non avevo niente di preciso in testa,
ovviamente. Non ero mai stato sulla scena di un omicidio e non avevo idea di
quale fosse il modo giusto di comportarsi. Comunque sia, cominciai a guardarmi
attorno, a spostare i libri sugli scaffali per vedere se ci fosse qualcosa
dietro, a frugare nei cassetti, a passare in rassegna gli oggetti sulla
scrivania. Tutte cose che avevano già fatte i militari del nucleo.
A un certo punto mi trovai fra le mani il
blocchetto delle ricette. Era quasi nuovo e, in apparenza, non aveva nulla di
interessante. Pagine bianche con il nome del medico e gli altri suoi dati.
Allora perché non lo rimisi subito a posto
come avevo fatto con tutti gli altri oggetti che - violando le disposizioni del
maresciallo - avevo toccato ed esaminato? Non lo so o non me lo ricordo. Che
poi è la stessa cosa. Sta di fatto che non lo riposi.
In effetti in quel blocchetto c’era
qualcosa di interessante, proprio perché non c’era.
Parole invisibili incise sulla carta.
Il medico aveva scritto una ricetta sul
foglio precedente del blocco e lo aveva strappato per consegnarlo al paziente.
Accesi la lampada da tavolo e la inclinai
in modo radente rispetto alla superficie bianca. Le parole vennero fuori, o
meglio, si vedevano e non si vedevano a seconda di come tenevo la luce. Si
intuiva che erano lì, ma non erano leggibili.
Così, senza nemmeno rendermi conto che
stavo manipolando e alterando in modo irreversibile una possibile prova, misi
in pratica un trucco che avevo imparato dalla professoressa di educazione
artistica alle scuole medie. Serviva a far comparire dal nulla un disegno o un
testo. Il gioco consisteva in questo: si scriveva o si disegnava sulla prima
pagina di un blocchetto, calcando forte in modo tale che le lettere e le parole
venissero impresse su quella sottostante. Quest’ultima all’apparenza rimaneva
bianca, ma passandoci sopra con delicatezza un carboncino o una matita dalla
punta morbida, come per magia le parole saltavano fuori in bianco su fondo
nero, simili a un graffito.
Sul ricettario comparve, con una grafia
stranamente chiara per appartenere a un medico, la prescrizione di un
antidolorifico - Optalidon - e il nome del paziente. L’ultimo che il dottore
aveva visitato prima di morire. O almeno l’ultimo per il quale aveva scritto
una ricetta.
Il mio primo impulso fu di rientrare in
caserma, andare dal comandante del nucleo operativo e riferirgli cosa avevo
scoperto e come avevo fatto, chiedendo come ricompensa di essere ammesso al nucleo
operativo e di poter partecipare al prosieguo dell’indagine.
Mi ci volle solo qualche secondo per
rendermi conto che era un progetto assurdo.
Anche se fossi riuscito a farmi ricevere -
cosa niente affatto scontata - che avrei detto?
«Comandi signor capitano, dopo che ve ne
siete andati mi sono messo a frugare senza autorizzazione, anzi, contravvenendo
alle superiori disposizioni, sulla scena del crimine. Ho trovato una possibile
prova e l’ho maneggiata e anche manipolata. In tal modo ho capito che il
dottore prima di essere ammazzato, ha scritto una ricetta».
Ammesso che il capitano non mi avesse
mangiato vivo, cosa avrebbe fatto dopo questa rivelazione? Mi avrebbe detto: «Vicebrigadiere
Fenoglio, complimenti davvero per la sua brillante intuizione. Vado pazzo per
le reclute che fanno di testa loro ficcando il naso nel lavoro degli altri e in
particolare quello dei miei uomini. Suvvia lasci perdere il radiomobile e venga
con noi. Anzi adesso le cedo pure il mio ufficio così può organizzarsi meglio».
Nel migliore (e più improbabile) dei casi
avrebbe preso il foglietto, mi avrebbe dato una pacca sulle spalle e mi avrebbe
rimandato ai miei turni di pattuglia. Nel peggiore avrei passato,
meritatamente, guai piuttosto seri.
Allora mi venne un’idea folle. Avrei
cercato io stesso l’ultimo paziente visitato dal medico e, una volta trovato,
gli avrei chiesto se, andando via, avesse notato qualcosa. Se non sapeva nulla
avrei lasciato perdere e non avrei raccontato niente a nessuno. Se avesse avuto
qualche informazione utile…bè ci avrei pensato dopo.
In quel momento non mi passò per la testa
che, molto probabilmente, quelli del nucleo operativo sarebbero comunque
arrivati a quel soggetto. Lo avrebbero interrogato e lui avrebbe risposto che
aveva già parlato con qualcuno dei carabinieri. Quelli si sarebbero
insospettiti, magari avrebbero indagato e la situazione sarebbe potuta
diventare davvero molto spiacevole.
Scoprire i dati di quel paziente non fu
difficile. In uno dei cassetti della scrivania c’erano un paio di piccoli
schedari. Dopo dieci minuti di consultazione, sempre tenendo d’occhio la porta
nel caso arrivassero quelli del nucleo mentre ero intento a non farmi i fatti
miei, avevo le generalità e l’indirizzo del soggetto. Osvaldo Baresi, si
chiamava. Suppongo che non dimenticherò mai il suo nome. Trascorsi alcuni
minuti arrivarono due sottoufficiali del nucleo operativo per repertare tutto
quello che poteva essere utile. Io avevo in tasca il foglio. Il blocco delle
ricette era sulla scrivania e rimase lì anche quando ebbero finito.
Nessuno dei due lo aveva degnato di uno
sguardo.
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