Difendendo pubblicamente il suo intervento
militare in Siria, il 10 ottobre il presidente
turco Recep Tayyip Erdoğan ha pronunciato parole sconvolgenti dirette
all’Europa. “Ehi, voi dell’Unione europea, riprendetevi. Lo dico ancora una
volta. Se cercherete di presentare la
nostra operazione come un’invasione apriremo le porte e vi manderemo 3,6
milioni di migranti”.
La minaccia di Erdoğan è vergognosa, perché
nel tentativo di mettere a tacere le critiche strumentalizza milioni di
profughi siriani in fuga dalle atrocità del loro paese, brandendoli come
strumento di ricatto nei confronti degli europei.
Queste parole evidenziano quale sia la
caratura umana e politica di un leader che in passato si era presentato come
interlocutore ragionevole e desideroso di entrare nell’Unione ma che alla fine
si è rivelato un autocrate alla ricerca
di un potere illimitato.
L’accoglienza
messa alla prova
Non è la prima volta che Erdoğan usa l’arma dei migranti. Dopo
l’arrivo in Europa di un milione di profughi nel 2015, il presidente turco aveva infatti negoziato
un accordo con Angela Merkel vendendo a caro prezzo la chiusura delle frontiere
turche, fino a quel momento un punto di transito dei disperati. L’accordo
era stato aspramente criticato sul piano morale, ma aveva effettivamente
permesso di stabilizzare la situazione.
Le minacce di Erdoğan non possono essere
prese alla leggera, tanto più che da agosto assistiamo a un aumento del numero di migranti che arrivano
nell’isola greca di Lesbo provenienti dalla Turchia, attualmente circa 500
al giorno. Siamo lontani dai numeri del 2015, ma il flusso è abbastanza intenso
da mettere alla prova i centri di accoglienza greci.
Erdoğan
è abituato a trattare con un’Europa in posizione di debolezza e incapace di
tenergli testa
Il presidente turco sa benissimo che il
problema è estremamente delicato in Europa, anche perché ha osservato l’impatto
elettorale dell’ondata migratoria del 2015 con l’ascesa del populismo e
dell’estrema destra. Erdoğan insomma, colpisce dove sa di far male.
È abituato a trattare con un’Europa in
posizione di debolezza e incapace di tenergli testa, e oggi spera che la sua
minaccia possa placare le critiche degli europei nei confronti del suo
intervento in Siria.
Ma esiste anche un gioco politico interno, altrettanto importante nell’equazione. La Turchia attraversa una crisi economica profonda, dovuta
soprattutto alla perdita di fiducia dopo il fallito colpo di stato del 2016. Il
Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp), partito islamico conservatore
del presidente, ha incassato diverse sconfitte, perdendo anche il comune di
Istanbul.
L’intervento
militare in Siria arriva nel momento
ideale per gettare benzina sul fuoco del nazionalismo. La folla applaude i
convogli militari, i presentatori televisivi esultano vedendo le colonne di
fumo oltre la frontiera e tutti i partiti si stringono intorno al presidente,
fatta eccezione ovviamente per il piccolo Partito democratico dei popoli (Hdp),
filocurdo.
“Di Erdoğan il popolo turco apprezza
precisamente ciò che gli stranieri detestano: la sua volontà di sfidare l’occidente colpevole di
aver smantellato l’impero ottomano”, spiegava l’anno scorso
l’accademico Soli Özel. Erdoğan cinicamente, pensa di avere tutti gli assi in
mano, proprio come nel 2015.
(Traduzione
di Andrea Sparacino)
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