da: https://www.cittanuova.it/the-irishman-martin-scorsese/
- di Mario Dal Bello
Presentato
nell rassegna romana il film capolavoro del maestro italo americano
In una casa
di riposo per anziani Frank, seduto su una sedia a rotelle, chiede al prete
che l’ha incontrato, di lasciare socchiusa la porta per la notte. Faceva così
anche il suo boss Jimmy Hoffa, che
l’aveva aiutato a crescere da irlandese camionista a suo fraterno amico. Lui
l’aveva ucciso a tradimento, obbedendo ad un altro “capo”.
Questa la vita dell’irlandese, chiuso,
taciturno, fedele, ma crudele. Ma la
porta socchiusa può essere anche aperta per una possibile entrata del
personaggio che domina l’ultimo film di Scorsese, presentato a Roma, la Morte.
Essa è sempre
stata presente nei suoi film, nella violenza dei gangster o in quella
subita dai cristiani in Silence. Violenza, sangue, ma pure rimorso, perdono,
attesa della “grazia”. Peggy, la figlia
di Franck che da piccola ha assistito alla ferocia del padre “per
proteggerla” e che ne intuito la vita segreta, non lo vuole più vedere: non vuol far pace con lui. Non lo perdona.
Lui ne soffre, non ne capisce il motivo.
Poi, faticosamente, ormai invecchiato, si fa aiutare dal prete in una confessione. Il
cattolicesimo difficile di Scorsese
affiora all’inizio e alla fine del film, ma è una religione che non
impedisce a Franck di spargere sangue e di essere complice della corruzione.
Film
grandiosamente epico, riassuntivo e malinconico, The Irishman dura oltre tre ore, ma uno non
se ne accorge, tanta è la fluidità del racconto tra presente e passato, con
gli attori ringiovaniti digitalmente,
la scioltezza del montaggio e l’interpretazione
superba di Robert De Niro (Franck) e Al Pacino, indimenticabile Hoffa,
presidente del potente sindacato degli
autotrasportatori.
Scorre anche la vita politica dell’America, gli eventi di Castro e dei Kennedy, le
trame della mafia.
Scorsese
sintetizza i temi della sua carriera, così che il film è davvero un’opera-testamento, in cui è lui stesso il personaggio nascosto principale, che
riflette sulla morte e sul perdono. Un riepilogo malinconico, nostalgico di tutto ciò che i l regista ha visto,
pensato, descritto nella vita.
Una infelicità palese grava sui personaggi
del film che talora si alza a dramma nei
colloqui fra De Niro e Pacino, nelle sfuriate di Pacino stesso, nella tristezza
della fine solitaria eppure aperta ad un timido raggio di luce.
Anche se l’atmosfera può essere soffocante,
ansiosa, durissima in una apparente o reale indifferenza di fronte al sangue,
alla morte e alla morale. Frank,
irlandese cattolico per tradizione, arriva al delitto lentamente e senza rimorsi: la morte ha i suoi
tempi, sa aspettare che l’uomo sia pronto a darla (gli omicidi a bruciapelo) e
ad accoglierla. Cosa resta alla fine del mondo corrotto e violento in cui
Franck ha agito, delle persone fragili come le quattro figlie, della moglie che
muore, di Peggy che non lo vuole nemmeno guardare al funerale della madre,
mentre lui la cerca disperatamente con lo sguardo?
Rimane forse l’attesa di un perdono
dall’alto, faticosamente ricercato, di una ammissione di colpevolezza, ammessa sotto la guida rispettosa di un
prete. Il vecchio Franck ha ucciso del resto, quasi senza rendersene conto, faceva parte del gioco:
l’inganno della morte. Ora è solo, la porta è socchiusa. Scorsese chiude con
questa bellissima, misteriosa anche
immagine, un film quasi capolavoro.
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