da: La Stampa
Se il
dialogo diventa un boomerang
di Maurizio
Molinari
Durante la rivolta anti-Gheddafi il
diplomatico americano Chris Stevens era arrivato a Bengasi nascosto dentro una
nave cargo, sbarcando da clandestino su mandato di Barack Obama per allacciare
i rapporti con i ribelli, ma ora la lascia dentro una bara dopo essere stato
ucciso da alcuni dei libici che ha contribuito a salvare. Nella tragica
parabola dell’ambasciatore Usa in Libia, che Hillary Clinton ha descritto
tradendo evidente commozione, c’è il boomerang della «Primavera araba» che
piomba sulla Casa Bianca obbligando il Presidente a disinnescare in fretta una
«sorpresa di settembre» che minaccia di complicare la corsa alla rielezione.
Il boomerang sta nel fatto che quanto avvenuto martedì sembra smentire la strategia con cui Obama ha sostenuto la «Primavera araba»: l’intervento militare voluto per salvare Bengasi dalla repressione di Muammar Gheddafi ha gettato la stessa città nella braccia dei salafiti alleati di Al Qaeda così come la scelta di obbligare l’alleato egiziano Hosni Mubarak alle dimissioni ha consentito ai jihadisti di issare le loro bandiere nere sul pennone dell’ambasciata Usa al Cairo, dopo aver ammainato e umiliato la «Old Glory». Convinto di poter creare una nuova stagione di dialogo con i partiti islamici che guidano le transizioni post-dittatori in NordAfrica, Obama si trova alle prese con il colpo di coda dei jihadisti: sfruttare la perdurante instabilità per tentare di ricreare nelle sabbie del Sahara la piattaforma terrorista perduta sulle montagne afghane e pakistane a seguito dell’intervento della Nato.
La coincidenza con l’anniversario dell’11 Settembre rende ancora più difficile la sfida per Obama perché evoca negli americani la convinzione che quella contro il terrorismo islamico sia la «lunga guerra» di cui parlavano George W. Bush e Donald Rumsfeld ma che l’amministrazione democratica ha respinto come dottrina, arrivando a cancellarne perfino la definizione nei manuali del Pentagono di Leon Panetta.
E come se non bastasse c’è la sovrapposizione con la campagna elettorale che trasforma il boomerang della «Primavera araba» in una possibile «sorpresa di settembre» - in anticipo di un mese su quelle che in genere decidono le presidenziali - capace di giovare allo sfidante repubblicano Mitt Romney, che non a caso si è affrettato a parlare di «Inverno arabo» per evidenziare l’incapacità del Presidente uscente di distinguere fra amici e nemici dell’America.
All’entità delle sfide che, nell’arco di poche ore, si sono così sommate inaspettatamente sul «Resolute Desk» dello Studio Ovale Obama ha risposto riproponendo il metodo che l’ex capo di gabinetto Rahm Emanuel riassume così: «Affrontarle tutte con uguale determinazione». Da qui la decisione di mandare marines e droni in Libia e, al tempo stesso, rigirare contro Romney l’accusa di incompetenza, accusandolo di «aver sfruttato un attentato terroristico a fini di politica interna». E’ nei momenti di crisi che il 44° Presidente torna ad essere il politico-lottatore di Chicago, facendo ciò che più gli riesce meglio: andare all’offensiva. Ciò significa che i salafiti della Cirenaica, e i loro mandanti di Al Qaeda in Maghreb, entrano da subito nella «Kill List» con cui il Presidente ha decimato i leader jihadisti negli ultimi tre anni e mezzo così come il duello aperto sulla sicurezza nazionale con Romney può giovare ad andare alle urne spingendo gli americani a pensare più al raid di Abbottabad che ai numeri della disoccupazione. Da qui lo scenario delle prossime settimane di un Presidente sempre più nei panni del comandante-in-capo, determinato a mantenere in fretta la promessa di obbligare i killer di Stevens a «fare i conti con la giustizia». Per togliere dalla strada della «Primavera araba» l’ostacolo jihadista e per avvicinarsi alla rielezione in maniera imprevedibile per i suoi sostenitori: potendosi vantare più dei nemici dell’America eliminati che non dei posti di lavoro creati.
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