da: la Repubblica
Lo
sfogo di Muccino: "Hollywood, sei spietata"
Quello
che so sull'amore in sala dal 10 gennaio è stato stroncato negli Usa. Il
regista, 30 chili di più per lo stress, fa un amaro bilancio dei 6 anni a Los
Angeles
di Curzio
Maltese
Ognuno ha diritto di usare il proprio
talento come crede. Gabriele Muccino ha deciso di metterlo al servizio dello
star system di Hollywood. Dopo i due film con Will Smith, La ricerca della felicità (2006) e Sette Anime (2008), è
appena uscito nelle sale Usa il suo terzo
film americano, Playing for Keeps. Il film sarà in Italia dal 10 gennaio
col titolo Quello che so sull'amore.
Cast da paura, dal nuovo sex symbol, lo scozzese Gerard Butler a Jessica Biel,
Uma Thurman, Catherine Zeta-Jones, Dennis Quaid. Ha incassato sei milioni di
dollari nel primo week end, non proprio
un flop, ma neppure un successo, soprattutto per uno che con gli ultimi due
titoli aveva incassato mezzo miliardo in giro per il mondo, più di quanta
accada a un bravo regista italiano in molte vite. La critica l'ha stroncato
quasi all'unanimità, con punte di perfidia del Los Angeles Times: "Un film che non c'è alcuna ragione di
vedere, a meno che non vogliate fare sesso con Gerard Butler".
In realtà Quello che so sull'amore è un caso esemplare di come Hollywood uccida il talento. La storia sarebbe originale e interessante, quella di un ex calciatore scozzese che finisce male una grande carriera nel campionato di soccer americano, perde tutto, ma decide di riconquistare l'unica cosa in cui ancora crede, l'amore per la moglie e il figlio. Una storia dolente di sogni americani e disillusioni, caos familiari, un romanzo di formazione di un quarantenne che ha rinviato la
stagione della
maturità inseguendo le parabole di un pallone. Soltanto che da un certo punto
in poi il film prende la piega imposta
dalle majors di un episodio di lusso di Desperate housewives, con Uma
Thurman e Catherine Zeta-Jones, nell'inconsueto ruolo di mogli frustrate, a
caccia grossa del bel Gerard. Il prevedibile finale non è quello aperto
immaginato dall'autore.
E allora, che cosa è successo? La prima
risposta Muccino la mette sotto gli
occhi, mentre viene incontro nella hall dell'albergo di Manhattan. Trenta chili in più di stress, l'aria
lisa di un reduce. Sembra lo stanco zio d'America del trentenne felice e
sconosciuto dei tempi di L'Ultimo bacio.
"Succede che sono venuto qui a fare il
gladiatore e non ero attrezzato. Con Will Smith era una passeggiata, mi
lasciava libero di girare come volevo. Qui ho capito che cos'è davvero Hollywood, un'industria spietata dove la gente
racconta balle dalla mattina alla sera. Contano
solo i grafici, i test, il marketing, il profitto". L'errore è stato
forse illudersi di portare le sfumature agrodolci e artigianali della commedia
all'italiana nella fabbrica mondiale dei generi cinematografici. "Sì, qui
i generi sono ferrei, si applicano protocolli. Il nostro modo di concepire la
commedia è oltre le colonne d'Ercole, è come pretendere d'imporre il divieto
delle armi in Louisiana. Se ti
impacchettano il film 'commedia sentimentale' si aspettano che accadono
certe cose, sempre le stesse. Monicelli, Risi, Scola per la commedia americana
sono arte d'avanguardia. Ho capito perché Woody Allen ormai gira soltanto in
Europa".
Nel mezzo dello sfogo, compare all'improvviso Bruce Willis, qui per una prima. Lo saluta con calore, lo riempie di complimenti. È curioso sentir parlare così di Hollywood un regista italiano quarantenne che ha coronato il sogno di molti colleghi europei: è adorato dalle star, si è permesso perfino il lusso di rifiutare proposte faraoniche, come girare il terzo episodio della saga di Twlight. In fondo l'America riconosce il talento. "Lo riconosce e lo insegue, vero, ma come il leone insegue la gazzella, per sbranarla. Uno s'immagina che arrivato a questo punto, il difficile sia dirigere Butler o Uma Thurman o Jessica Biel o Dennis Quaid, e invece quello è stato un gioco. La fatica è fuori dal set, nell'arena dello show business. Non c'è rispetto per l'intelligenza del pubblico. Se devo fare un bilancio dopo sette anni e tre film, devo dire che ho imparato una marea di cose, come regista e uomo. Ma forse ero più sereno quando avevo di meno".
Oggi vola a Roma. "Non vedo l'ora". Nel futuro immediato due progetti, uno americano e uno italiano, dovrà scegliere. "Sono comunque ormai con un piede qui e uno dall'altra parte dell'oceano". Uno sradicamento estremo anche per uno come lui. "Ma non ho rinunciato all'idea di portare qualcosa dell'America da noi e viceversa". Che cosa manca al cinema italiano per superare il fatale confine di Chiasso? "La voglia di farlo davvero. Abbiamo ancora talento. Manca forse la scrittura, la mia generazione non ha avuto Age e Scarpelli. A parte questo, rimaniamo una società chiusa, diffidente del mondo. Il berlusconismo è stato questo, un'anomalia ostinatamente provinciale, mascherata di modernismo". Nei suoi film è sempre nascosto un modello classico del cinema italiano. I Vitelloni dietro L'Ultimo Bacio, Bellissima per Ricordati di me, il rapporto fra padre e figlio di Ladri di biciclette per La ricerca della felicità e anche Quello che so sull'amore. "Nessun cinema ha prodotto tanti capolavori concentrati nel tempo come il cinema italiano fra il dopoguerra e gli anni Sessanta. Sono anche storie attuali? No, sono più che attuali, sono avanti. Per me guardare ai nostri classici non significa guardare al passato, ma al futuro".
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