In Italia non esiste giustizia. Per questi
motivi:
1. I processi hanno tempo lunghissimi;
2. La certezza delle pena è un concetto
praticamente sconosciuto;
3. I detenuti sono mediamente trattati come
bestie.
Ovviamente, il carcere non può e non
dev’essere una suite ma neppure un postribolo dove si ammassano persone che
vivono come in un letamaio.
4. I diritti delle vittime dei reati non
sono rispettati; perché se non vi è certezza della pena si calpestano i diritti
di coloro che hanno subito i reati.
Lettere dalle carceri
italiane
di AA. VV. – il Manifesto
Un
senso alla pena
Sono un detenuto del carcere di Opera, ma ho presentato la richiesta per essere trasferito a quello di Bollate dove mi piacerebbe continuare gli studi di scuola superiore che ho iniziato nel carcere di Ferrara, ma che ho dovuto interrompere quando sono stato trasferito. Potrei anche continuare il percorso terapeutico poiché sono un tossicodipendente “storico” e, essendo un allevatore e agricoltore, potrei anche accudire degli animali. Nel carcere di Ferrara avevo frequentato un corso di “Controllo dell’aggressività sulla popolazione detenuta” con l’ausilio di due pit bull, riuscendo a prendere anche l’attestato con esito positivo. Ma non credo che queste mie istanze verranno accettate, perché non ho finito l’osservazione con l’educatrice, che è però inesistente. (…) Quando stavo nel carcere di Ferrara nel 2008, ho percepito il sovraffollamento quando in una cella di 9 metri quadrati viene aggiunta una terza branda, di conseguenza in una sezione composta da 25 celle, sono recluse 75 persone, anziché le appena tollerabili 50. Conti alla mano, nel carcere di Ferrara anziché 260, eravamo 530: più del doppio. Per motivi di sicurezza, quindi, non si è più potuto usufruire della socialità alla sera e questo ha influito negativamente sulla mia salute tanto che da allora soffro di stati d’ansia e attacchi di panico, che tuttora curo con antidepressivi. Una volta che ci siamo trovati
davanti al magistrato per denunciare tutto ciò, eravamo in
tre, questi ha disposto un’ispezione ma subito dopo sono stato trasferito, costretto
quindi a interrompere gli studi, l’unico progetto che avevo. Avrei fatto meglio
a starmene zitto, perché è la stessa istituzione che insegna l’omertà. Mi
piacerebbe fare ricorso alla Corte europea, per riuscire a dare un senso alla
mia pena e poter uscire una persona migliore. Fine pena: 2036.
Dieci
ore per un medico
Ho 24 anni e sono detenuto del carcere di Caltagirone, vengo da quello di Agrigento dove sono stato rinchiuso per 4 giorni in isolamento senza poter né bere né lavarmi. Dopo l’interrogatorio del Gip, mi hanno trasferito in una cella di circa 9 metri, dove eravamo in tre, con un bagno senza bidet, e con sola acqua fredda. Le docce sono fuori, sono tre ma ne funzionano solo due, per 75 persone, e sei fortunato quando trovi l’acqua calda. Da quando hanno costruito questo carcere nel ’75, i termosifoni non hanno mai funzionato. Se vogliamo le celle pulite, dobbiamo essere noi detenuti a pensarci e dobbiamo provvedere anche a comprare i detersivi. Se non abbiamo i soldi, viviamo nel lerciume, come animali e questo io credo che non sia giusto e sia contro la nostra Costituzione. Una volta si è rotto il gabinetto e per cambiarlo abbiamo aspettato due mesi! L’ora d’aria funziona così: si dovrebbe scendere in cortile dalle 8.30 alle 10.30 e poi il pomeriggio dalle 13 fino alle 15, invece ci fanno scendere sempre mezz’ora più tardi e quando protestiamo, ci rispondono che manca il personale. 120 metri quadri di muro, senza un angolo di verde, puoi vedere solo il cielo se alzi gli occhi. Prima di incontrare la famiglia per un colloquio, ci perquisiscono due volte, ci fanno aspettare più di un’ora (la mia famiglia a volte aspetta anche dalle 4 alle 5 ore). Ho fatto molte domande per lavorare o per fare qualche corso, tutte con esito negativo. Per non parlare dei medici: una volta che avevo 40 di febbre il medico, chiamato alle 10 del mattino, è arrivato alle 20.30! Potevo anche morire e loro erano tutti tranquilli.
Il dentista dopo tre mesi
Sono detenuto nel carcere di Bollate ma è di quello di Monza che voglio parlare, perché ero costretto a stare in tre in una cella progettata per una persona. All’inizio dormivo su un materasso per terra, dopo qualche mese hanno portato una branda, ma a quel punto non potevamo più muoverci e quindi per poter stare in piedi eravamo costretti a ripiegarla e addossarla al muro. Il bagno, senza finestra, era piccolissimo e l’acqua era solo fredda. Le docce in comune erano in uno stato pietoso: piastrelle rotte e muffa sui muri, spesso senza acqua calda. Ero detenuto in regime protetto. L’unica attività che ho svolto in due anni e sei mesi di carcerazione è stata quella di scopino per un mese. Ho frequentato un corso di inglese di quattro mesi, tre ore per una volta alla settimana. I miei familiari li vedo una volta al mese perché abitano lontano e sono anziani. Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria, per fortuna solo una volta ho avuto bisogno di un dentista, che mi ha visitato dopo tre mesi.
Il calvario di noi familiari
Sono un familiare di un detenuto nel carcere di Cuneo e abito a Napoli. Da poco tempo hanno affisso una circolare che avvisa che il colloquio si deve prenotare prima e così anche l’orario. Inoltre bisogna presentarsi mezz’ora prima. Ma noi come facciamo a garantire una tale precisione? Questa è l’ennesima difficoltà che creano a noi familiari del 41 bis.
A
mezzo metro dal mio naso
Sono un detenuto nell’inferno del carcere
di Busto Arsizio e per quasi un anno sono stato in una cella al limite della
sopravvivenza, in un reparto per tossicodipendenti. La permanenza in questa
cella, essendo umida e buia, mi ha comportato la perdita di qualche decimo
della vista. Dormivo nella terza branda di un letto a castello, con il costante
rischio di cadere e, ogni volta che mi alzavo velocemente, picchiavo la testa
contro il soffitto, a mezzo metro dal mio naso. Ho presentato una denuncia alla
Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo circa un anno fa, ma dopo
uno scambio di lettere, non ho più saputo nulla. Forse perché sono indigente e
non posso permettermi un avvocato?
Tra scarafaggi e parassiti
Sono detenuto nel carcere circondariale di Como ma sono stato qualche anno in quello di San Vittore, dove le condizioni erano invivibili. Il bagno era unito alla cucina, dove proliferavano scarafaggi e parassiti di ogni tipo, doccia esterna in condizioni igieniche insostenibili, assenza di bidet e quindi costretti a lavarci con delle bottiglie riempite con l’acqua, le finestre a bocca di lupo non si potevano aprire perché incastrate dalla terza branda di un letto a castello. Solo tre ore d’aria, di cui mezza per la doccia. Fine pena: ottobre 2015.
Si muore nell’indifferenza
Siamo un gruppo di persone detenute nella sezione F del carcere di Carinola e viviamo confinati in celle le cui dimensioni non superano gli 11-12 mq. e, si badi, che in questi metri sono inclusi gli spazi occupati da quattro brande e relativi armadietti (in gergo bilancette), le finestre sono poste in alto e con vetri opachi che non consentono la visione diretta all’esterno, l’illuminazione della cella è insufficiente e non consente di leggere e studiare agevolmente. I servizi igienici non rispettano la dignità della persone e in queste condizioni siamo costretti a vivere per 20 ore al giorno. I materassi e i cuscini (in realtà delle spugne) sono sporchi e maleodoranti nonché pieni di batteri e microbi e Dio sa cos’altro e quando sei costretto a dormirci per anni, non è questione da poco, ma si tramuta in un vero problema di salute con sviluppo di patologie che vanno dalle allergie gravi alle patologie respiratorie. I colloqui con i nostri familiari si svolgono in locali inadeguati (un sudario d’estate, una cella frigo d’inverno) con un muro divisorio di mussoliniana memoria, che impedisce anche un semplice abbraccio ai nostri cari, con sgabelli fissi in cemento a spigolo vivo che sono un pericolo per i nostri bambini. Una situazione sanitaria che definire da terzo mondo è un eufemismo, basti dire che in questo carcere si muore tra l’indifferenza generale: tre i casi da novembre 2010 ad oggi. Dulcis in fundo, una ottusa visione di lombrosiana memoria dell’esecuzione penale da parte dell’illuminata direzione del carcere non consente alcun tipo di percorso rieducativo a cui la pena dovrebbe tendere così come previsto dall’art. 27 della Costituzione.
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