da: Rockol
di Riccardo
Bertoncelli
“Guccini ci sta facendo desiderare un suo nuovo disco, che chissà quando uscirà. Quando accadrà, lo spero forte e avvelenato come è giusto che sia per un signore della sua età e della sua storia; uno sguardo senza sconti a un mondo che si è imbruttito e abbrutito, come il ragazzone entusiasta e casinista dell’Osteria delle Dame non avrebbe mai immaginato.”
Scrivevo così nelle note a Storie d’altre
storie, l’antologia ufficiale del 2010, pensando a certi album sulfurei che
ogni tanto illuminano il finale di partita di vecchi artisti. E non solo album:
dicono che Erik Satie sia morto sibilando “bastardi!” in faccia al mondo, e
quanto mi piacerebbe avere quel gusto e quella ferocia in punta di vita. Ma
Guccini no, la sua idea di commiato è un’altra, alla fine quell’album è venuto
e non è avvelenato, non è feroce. Però forte lo è, e molto vero, molto suo, e
già questo è un segno che l’appassionato prenderà come una benedizione e una
carezza. “Ritratti”, il penultimo CD del 2004, era un non-so-cosa un po’
svagato, che nella artificiosa varietà del repertorio non sapeva rendere l’idea
dei tempi intorno e i sessant’anni nel frattempo compiuti. Ora gli anni sono
settantadue e parlano forte tra le righe di “L’ultima Thule”, con una pacatezza
peraltro, con una serenità che stempera tristezze e misantropia. Francesco è
stanco, fiaccato nel corpo, saturo di un mondo, quello musicale, che in fondo
non ha mai troppo amato. Eppure non spende le sue estreme canzoni per
vituperare
ma piuttosto per ricordare, tra gioia e nostalgia, e celebrare quel che resta di antiche speranze. Come i vecchi ricorda soprattutto le cose più lontane, che non a caso gli appaiono come le più forti, le più vere, quelle che lo hanno formato e accompagnato per la vita; ricorda l’infanzia e i sandali consumati nei giochi estivi, “quel giorno d’aprile” e l’inverno prima, “su in collina”, ricorda lo studio nella cameretta, la mamma che canta e il babbo che legge il giornale, ricorda il suono della macina del mulino e la voce del fiume che negli ultimi anni ha ritrovato – e perché non ci siano dubbi, per giocare anche un po’ con l’altroieri, apre il disco con un siparietto in cui ritorna bambino e la voce del suo Limentra la fa entrare tra i solchi e neanche in sottofondo, proprio a invadere una canzone.
ma piuttosto per ricordare, tra gioia e nostalgia, e celebrare quel che resta di antiche speranze. Come i vecchi ricorda soprattutto le cose più lontane, che non a caso gli appaiono come le più forti, le più vere, quelle che lo hanno formato e accompagnato per la vita; ricorda l’infanzia e i sandali consumati nei giochi estivi, “quel giorno d’aprile” e l’inverno prima, “su in collina”, ricorda lo studio nella cameretta, la mamma che canta e il babbo che legge il giornale, ricorda il suono della macina del mulino e la voce del fiume che negli ultimi anni ha ritrovato – e perché non ci siano dubbi, per giocare anche un po’ con l’altroieri, apre il disco con un siparietto in cui ritorna bambino e la voce del suo Limentra la fa entrare tra i solchi e neanche in sottofondo, proprio a invadere una canzone.
Non ho mai chiesto ai cantautori parole
salvifiche, non mi sono mai appeso alle loro labbra. Mi basta molto meno (si fa
per dire): serietà, sincerità, uno sguardo non banale alle cose del mondo e, se
il pudore non osta, alle pieghe del proprio cuore. Quindi non uso il bilancino
per verificare se questo “L’ultima Thule” pesi di più o di meno dei Grandi
Classici Gucciniani. Mi limito a dire, e non è poco, che è un disco vero e
puntiglioso, con un solo filler a ben ascoltare (“Notti”) e canzoni invece che
avrebbero reso bene sulla scena, dove non le ascolteremo mai: “Canzone di notte
n. 4”, le chiamo per nome, “L’ultima volta”, “Il testamento di un pagliaccio”,
“L’ultima Thule”. Anche la musica mi sembra puntigliosa e accuratamente
gucciniana. Flaco compare gloriosamente come autore, produttore, arrangiatore,
con Vince Tempera e Antonio Marangolo ha potuto lavorare con più agio sulle
coloriture e la stoffa dei brani, e in certi momenti si respira una balsamica
aria da primi anni 70, “Radici” o “Stanze di vita quotidiana”, come
quell’armonica che scivola con le memorie di “L’ultima volta” e le
chitarre/flauti che accompagnano l’approdo di Francesco, cinquant’anni dopo,
alla sua ultima Thule.
Curiosa questa insistenza di Guccini,
non-viaggiatore come ce ne sono pochi, sui viaggi, sulle navi, sul re di Spagna
che fece vela e Odysseus e Cristoforo Colombo, e ora “io che ho doppiato tre
volte Capo Horn / e ho navigato sette volte i sette mari”. Ma la metafora è
solida e bella, e gli artisti se la possono permettere; anche quelli che per
modestia dicono bugie, come Francesco fa spudoratamente nei versi finali de Gli
artisti – “io semplice essere umano/ costretto a costretti ideali/ son solo un
umile artigiano/ e volo con piccole ali./ Fabbrico sedie e canzoni/ erbaggi
amari, cicoria/ o un grappolo di illusioni/ che svaniscono nella memoria/ e non
restano nella memoria”.
La recensione di Franco Zanetti
Non mi ricordo più da quanto tempo non ascoltavo un disco dall’inizio alla fine, senza interruzioni. Oltretutto di solito ascolto i dischi in automobile, guidando, e naturalmente con il telefono a portata di mano - auricolare compreso, s’intende; sicché è praticamente impossibile che i quaranta minuti di ascolto di un disco non siano interrotti da qualche squillo e quindi da qualche conversazione.
Questa volta, però, mi sono organizzato per
bene: ho scelto un viaggio a tarda sera, ho chiamato casa prima di partire, e
appena entrato in autostrada ho infilato nel lettore dei Cd il nuovo -
l’ultimo, “l’ultimo” - disco di Francesco
Guccini. Ho pensato che glielo dovevo, a Guccini, un ascolto
intero e continuativo e non spezzettato; per la stima che gli porto, per quello
che ha contato nella mia educazione musicale, per i tanti dopoconcerto alcolici
a sfidarci nel ricordare le poesie studiate a memoria alle medie, e per quelle
due prime visite alle sue case - una a via Paolo Fabbri al 43, Bologna, quando
ancora ero un semplice collaboratore di un quotidiano di provincia, e una a
Pàvana, al mulino, quando andai a raccogliere le sue parole per il comunicato
stampa di “Amerigo” (avevo da poco iniziato a lavorare alla EMI).
Temevo, lo confesso, la delusione. Avevo
già letto tutti gli articoli già usciti, tutti con un amaro sapore di “non
proprio coccodrillo ma quasi”, tutti allineati nel definire “L’ultima Thule”
come “un capolavoro” (di capolavori, per definizione, nella propria vita
chiunque ne sforna solo uno: quando leggo “un altro capolavoro di...” mi viene
l’orticaria): tutti, o quasi tutti, scritti dopo un ascolto veloce e distratto
(“i tempi dei giornali, la concorrenza, le troppe nuove uscite del periodo,
signora mia, come ci tocca lavorare male!”). E mi chiedevo come sarei riuscito
a recensire questo disco se non mi fosse piaciuto, se avrei cercato di
arrampicarmi sugli specchi per non essere presuntuosamente critico o se
vilmente avrei passato la mano affidandone la recensione a qualcun altro.
E va bene, adesso l’ho ascoltato una volta
intera e riascoltato tre volte a pezzi, e sono pronto a dirvi quel che penso.
Non senza prima aver reso onore ai “musici”, come li definiscono le note di
copertina: Ellade Bandini, Juan Carlos “Flaco” Biondini, Roberto Manuzzi,
Antonio Marangolo, Pierluigi Mingotti, Vincenzo “Vince” Tempera, con il
contributo di Paolo Simonazzi e Vittorio Piombo. Gente di grande mestiere che
sa cosa serve per accompagnare Guccini: discrezione, ordine, compostezza e
qualche coloritura, roba che non disturbi la comprensione delle parole e
l’ascolto di una voce che, com’è ovvio, non è più quella tonante di un tempo.
Secondo me, “L’ultima Thule” non è uno dei migliori lavori di Francesco Guccini. Contiene una canzone indimenticabile, una dimenticabilissima, una molto ben riuscita (quella che intitola l’album) e altre che non mi sembrano meritevoli di iscrizione nel Gotha del “meglio di” Francesco Guccini.
Secondo me, “L’ultima Thule” non è uno dei migliori lavori di Francesco Guccini. Contiene una canzone indimenticabile, una dimenticabilissima, una molto ben riuscita (quella che intitola l’album) e altre che non mi sembrano meritevoli di iscrizione nel Gotha del “meglio di” Francesco Guccini.
Comincio dal fondo, da “Notti”, che non da
Guccini è stata scritta, ma da due cantautori a tempo perso che di mestiere
fanno (presumo con migliori risultati) lo psicoterapeuta e lo psichiatra: e
questa è quella dimenticabilissima.
La canzone indimenticabile è “L’ultima volta”. L’idea intorno alla quale si sviluppa è folgorante (c’è sempre un’ultima volta in cui abbiamo compiuto o compiremo una determinata azione, ma nel momento in cui la compiamo noi non sappiamo che quella sarà l’ultima volta), la successione delle immagini che compongono la narrazione è felicissima (“...il tuo piede bambino / lungo i valichi dell’Appennino”, “...leggendo il giornale / hai veduto tuo padre fumare”), e abilissima ed efficacissima è l’inversione che apre l’ultima stanza (dal “Quand’è stata” delle prime due al “Sarà quando” della terza). Qui c’è il Guccini che mi è più caro, quello che rispetta e ama Giovanni Pascoli (“Valentino”) e Guido Gozzano (“signorina Felicita”) e li riecheggia senza vergognarsene, come già fece in “Incontro” e “Il pensionato”. Nella canzone risuona la “voce” del fiume Limentra, e l’anticipazione di morte che la chiude riesce a diventare persino serena, quasi l’attesa di un distacco che non sarà doloroso, proprio perché, quando arriverà, non sapremo che quello sarà per noi “il giorno dell’ultima volta”, quello della nostra morte (“ed il ritmo del tuo respirare / che pian piano si ferma e scompare”). Flaco Biondini, coautore del brano, sostiene che l’ultimissimo verso sarebbe dovuto essere “e toccarsi ben bene le palle”, a esorcizzare bravamente il presagio; probabilmente questa sarebbe la gag in concerto, se questa canzone avesse la ventura di essere eseguita dal vivo - ma Guccini ha dichiarato anche che non farà più concerti.
Vediamo il resto. “Canzone di notte N°4” è un bell’esercizio, anche lessicale (“anfratto”, “viluppo”, “muglia”, “errabondo”, “battola”, “ruoti”, “bitume”, “a gabbo”, “di maniera”, “roste”, “bonacce”), dall’incedere circolare e solenne. Rimanda alla “Canzone di notte” di “L’isola non trovata” (1971), alla “Canzone di notte N°2” di “Via Paolo Fabbri 43” (1976, la mia preferita) e alla “Canzone di notte N°3” di “Signora Bovary” (1987). Un po’ “di maniera”, appunto, ma costruita con grande mestiere.
La canzone indimenticabile è “L’ultima volta”. L’idea intorno alla quale si sviluppa è folgorante (c’è sempre un’ultima volta in cui abbiamo compiuto o compiremo una determinata azione, ma nel momento in cui la compiamo noi non sappiamo che quella sarà l’ultima volta), la successione delle immagini che compongono la narrazione è felicissima (“...il tuo piede bambino / lungo i valichi dell’Appennino”, “...leggendo il giornale / hai veduto tuo padre fumare”), e abilissima ed efficacissima è l’inversione che apre l’ultima stanza (dal “Quand’è stata” delle prime due al “Sarà quando” della terza). Qui c’è il Guccini che mi è più caro, quello che rispetta e ama Giovanni Pascoli (“Valentino”) e Guido Gozzano (“signorina Felicita”) e li riecheggia senza vergognarsene, come già fece in “Incontro” e “Il pensionato”. Nella canzone risuona la “voce” del fiume Limentra, e l’anticipazione di morte che la chiude riesce a diventare persino serena, quasi l’attesa di un distacco che non sarà doloroso, proprio perché, quando arriverà, non sapremo che quello sarà per noi “il giorno dell’ultima volta”, quello della nostra morte (“ed il ritmo del tuo respirare / che pian piano si ferma e scompare”). Flaco Biondini, coautore del brano, sostiene che l’ultimissimo verso sarebbe dovuto essere “e toccarsi ben bene le palle”, a esorcizzare bravamente il presagio; probabilmente questa sarebbe la gag in concerto, se questa canzone avesse la ventura di essere eseguita dal vivo - ma Guccini ha dichiarato anche che non farà più concerti.
Vediamo il resto. “Canzone di notte N°4” è un bell’esercizio, anche lessicale (“anfratto”, “viluppo”, “muglia”, “errabondo”, “battola”, “ruoti”, “bitume”, “a gabbo”, “di maniera”, “roste”, “bonacce”), dall’incedere circolare e solenne. Rimanda alla “Canzone di notte” di “L’isola non trovata” (1971), alla “Canzone di notte N°2” di “Via Paolo Fabbri 43” (1976, la mia preferita) e alla “Canzone di notte N°3” di “Signora Bovary” (1987). Un po’ “di maniera”, appunto, ma costruita con grande mestiere.
“Su in collina” è una strana canzone, il
cui testo è la traduzione e l’adattamento di una poesia in dialetto bolognese
di Gastone Vandelli (probabilmente fatta conoscere a Guccini dal compagno di
scrittura Loriano Macchiavelli: anche l’ambientazione storica e geografica
rimanda al trittico del maresciallo Santovito). E’ una storia di resistenza
partigiana che Guccini canta alla maniera di Franco Trincale e dei cantastorie,
quasi declamando un testo colloquiale che alterna l’imperfetto, il passato
remoto e il presente. Interessante ma atipica, nel canzoniere gucciniano.
Come è atipica “Quel giorno d’aprile”,
scritta con Beppe Dati: un po’ “1950” di Gaio Chiocchio (quella cantata da
Amedeo Minghi a Sanremo nel 1983) un po’ De Gregori, con qualche momento di
composta retorica (“bandiere impazzite di luce”, “l’anima dorme davanti a una
scatola vuota”): poco gucciniana anche questa, tutto sommato.
Tutta firmata Guccini, ma con evidenti richiami a Georges Brassens, è “Il testamento di un pagliaccio”, che procede su un tempo bandistico mentre il testo richiama le canzoni goliardiche, ed eccede qua e là (parere personale) nei riferimenti alla cronaca politica.
Tutta firmata Guccini, ma con evidenti richiami a Georges Brassens, è “Il testamento di un pagliaccio”, che procede su un tempo bandistico mentre il testo richiama le canzoni goliardiche, ed eccede qua e là (parere personale) nei riferimenti alla cronaca politica.
Di “Gli artisti” (Guccini/Biondini) mi
piace l’idea portante, quella che gli artisti sono persone convinte di essere
“speciali” (e apprezzo il sottotesto dell’autore che si considera invece “un
artigiano”), mi piace l’atmosfera felliniana e circense (“rattoppano una
calzamaglia”), mi piace assai una finezza da studioso della lingua (il
ripescaggio dell’aggettivo “umìle” con l’accentazione poetica antica sulla i),
ma non riesco a spiegarmi certe zoppìe metriche nel testo; inusuali per
Guccini, che alla metrica ha sempre dedicato attenzione speciale. Fretta o
distrazione?
Infine, “L’ultima Thule” - seconda miglior
canzone dell’album, a mio avviso - con la sua reminiscenza, secondo me,
carducciana (“Fedel sino all’avello / egli era in Thule un re”) più che
tolemaica o virgiliana, ci riporta il Guccini epico di “L’isola non trovata”, la
canzone e non l’album, e di “Asia”, che stavolta pare identificarsi in un
vecchio corsaro (l’Olandese Volante di Carl Barks - “Zio Paperone e il vascello
fantasma”? il Pap McPaper di Romano Scarpa - “Paperino e la leggenda dello
Scozzese Volante”? o il “Batavo maledetto” citato in “Antenor”, “Metropolis”,
1981?) e punteggia il testo di lessico marinaresco. Orgoglio e smarrimento
percorrono un testo sontuosamente romantico (nel senso del movimento poetico,
non sentimentale) che si chiude con un epitaffio “aere perennium” - “si perderà
in un’ultima canzone / di me e della mia nave anche il ricordo” - che pecca di
civetteria: il ricordo dell’opera di Francesco Guccini è destinato a durare
molto a lungo.
TRACKLIST:
“Canzone di notte N° 4”
“L’ultima volta”
“Su un collina”
“Quel giono d’aprile”
“Il testamento di un pagliaccio”
“Notti”
“Gli artisti”
“Gli artisti”
“L’ultima Thule”
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