Analisi perfetta quella di Gian Enrico
Rusconi ne ‘La Stampa’ di oggi. Ovviamente…marxista va scritto rigorosamente
tra apici.
Concordo anche sul fatto che Monti potrebbe
“disturbare” sia Berlusconi sia Bersani, ma vorrei ricordare all’acuto analista
Rusconi, che così come da un paio d’anni era nell’aria un “malessere”, una “delusione”
nei confronti di Berlusconi che faceva presagire bastonate elettorali, fatte
salve le indubbie positività di Monti (non fa i suoi interessi, ha lavorato con
proposte e soluzioni), l’”aria media” che tira è quella di gente stufa di
pagare per i danni prodotti da anni e anni di antipolitica. Perché la classe
politica che non sa gestire la cosa pubblica è antipolitica.
E questi lunghi anni di antipolitica hanno
prodotto buchi, sperperi. Hanno gonfiato il debito pubblico. E Monti, per
rispettare il compitino che Berlusconi, nel tentativo di rimanere a galla,
aveva accettato dalla maestra Merkel, ha pescato dalle tasche dei soliti
contribuenti per coprire le voragini del debito pubblico.
Il che tradotto significa: rispettiamo la sua
persona, ma quando andremo a votare ci ricorderemo che stipendi e pensioni si
stanno prosciugando. E tralascio, al momento, alcuni errori e limiti del governo
originati dal dogma di Monti: i Mercati (riforma delle pensioni, riforma del
lavoro, e alcuni errori di comunicazione imputabili a suoi ministri, in testa:
la Fornero).
Ergo….Monti prenderà dei voti. Sufficienti
per “disturbare” Bersani ma non farà certo bingo.
Risultato: sarà come nel 2006, quando vinse
Prodi. Una maggioranza esigua da battere facilmente…
Forse non è ancora chiaro che non ci
possiamo permettere governi di incapaci o maggioranze incapaci.
Ed è per questo che risulta facile ma
inevitabile un attacco di sano populismo. Quello di Lucina Littizzetto,
domenica scorsa a ‘Che tempo che fa’: avete rotto il cazzo.
da: La Stampa
Quel
salto dai poteri forti alla protesta
di Gian
Enrico Rusconi
C’è
un uomo, in Italia, che
segue, con assoluta coerenza, la fondamentale lezione di Carlo Marx. Questo
uomo è Berlusconi. Da quando è
entrato in politica, da quasi vent’anni, pensa
che le ideologie, le sovrastrutture, siano solo strumenti dello scontro di interessi e che, per raccogliere voti, occorra individuare,
con la massima rapidità e
spregiudicatezza, i cambiamenti sociali che alimentano la protesta.
Così, ha scelto, con perfetto tempismo, il momento
più opportuno per lanciare la sesta discesa in campo nel nome della sua
antica battaglia, quella del ‘94,
contro l’establishment, la struttura dirigente nazionale ed europea.
Non devono stupire, perciò, le sue tante contraddizioni: quella di aver stipulato lui, con l’Europa, appena
l’anno scorso, un patto di repentino e azzardato rientro del debito; quella
di aver fatto votare al suo partito
tutte le misure proposte da Monti e, infine, per citare solo quella più
clamorosa, la promessa di ritirarsi come
«padre nobile» di un centrodestra rinnovato. Berlusconi ha capito di aver perso definitivamente la credibilità sull’immagine che aveva cercato di
costruirsi nella legislatura che sta per concludersi, cioè quella dell’uomo
di Stato, liberista in economia e moderato in politica, perfetto interprete
italiano della linea sostenuta in Europa dal partito popolare europeo. Una
linea, peraltro, nel nostro Paese, «usurpata», con ben maggiore autorevolezza
internazionale, proprio da un leader tecnico e pragmatico come Mario
Monti.
Sintomo di questa sottrazione di una parte
importante del bacino elettorale del Cavaliere è lo sfaldarsi, proprio in contrapposizione con l’attuale premier,
dell’appoggio di due pezzi tradizionali
e fondamentali di quella che è stata la sua «costituente» in questi due
decenni, la Chiesa e l’imprenditoria
italiana. Le reazioni alla mossa
di provocare la crisi di governo, insolitamente
dure e senza troppe ipocrisie formali, di vescovi abituati alle più sottili
prudenze episcopali come quella del loro capo, Angelo Bagnasco o di
industriali ex simpatizzanti, come il presidente della Confindustria, Giorgio
Squinzi, sono state la conferma di un distacco definitivo che Berlusconi, da
abile uomo di marketing, aveva compreso da tempo come fosse ormai
irrecuperabile.
Ecco perché la sua strategia politica è
cambiata, apparentemente all’improvviso. Perduto
il sostegno dei moderati, del ceto medio borghese, del mondo
dell’imprenditoria, della finanza e, persino, dell’alto clero, Berlusconi è stato costretto a rivolgersi,
nel frattempo, là dove montava più forte
il disagio e la protesta. Ossia nei ceti popolari, trasversalmente divisi
tra l’astensionismo, la ribellione grillina e anche la rabbia di una certa
sinistra insofferente a Monti e alla sue riforme rigoriste. Così è stato
riscoperto il vecchio linguaggio
dell’esordio politico berlusconiano, quello anti-sistema, contro i
cosiddetti «poteri forti», aggiornato all’ultima vulgata popolar-demagogica,
quella contro la Germania e l’Europa egemonizzata dalla Merkel. Con la
conclusione (per ora) linguisticamente più efficace, lo slogan contro «lo
spread», simbolo dell’incomprensibile spauracchio che incomberebbe sulla testa
e nelle tasche degli italiani.
La linea
che impronta la campagna elettorale di Berlusconi è perfettamente adeguata
allo scopo che si prefigge il Cavaliere: non
quello di vincere la battaglia per la futura presidenza del Consiglio, ma quella di ottenere un consistente gruppo di fedelissimi in Parlamento, scudo personale delle sue aziende e dei
suoi problemi processuali. E’ chiaro, infatti, che una tale posizione
antieuropeista e antitedesca sarebbe improponibile se dovesse avere come
obiettivo la leadership di un governo italiano, pena catastrofiche conseguenze
sulle nostre finanze e sulla nostra presenza internazionale. Le parole della
Merkel, del ministro Westerwelle e, soprattutto, della dirigenza del partito
popolare europeo sono, a questo proposito, inequivocabili. Fanno capire, tra
l’altro, come neanche l’ipocrisia diplomatica riesca a celare la convinzione,
tra i nostri partner europei, che nel 2013 non si troveranno davanti, a
Bruxelles, di nuovo Berlusconi a capo della delegazione governativa italiana.
Del tutto compatibile, invece, con
un’opposizione senza particolari responsabilità, sarebbe la polemica contro l’Europa e, perfino, quella contro
lo spread e contro l’euro, condita dal definitivo abbassamento della
bandiera liberale, in favore di un protezionismo
nazionalistico che resusciti, almeno nei sogni, la lira e quelle svalutazioni della moneta che erano tanto preziose per
esportare i nostri prodotti.
Alla spregiudicata strategia filosofica «marxiana» si aggiunge, in Berlusconi,
l’intuito tattico dell’uomo di comunicazione. Così, la sconfitta di Renzi alle primarie pd, l’alleanza in lista della
coppia Bersani-Vendola, la
necessità, da parte di Maroni, di un
accordo col Pdl per sperare in una vittoria in Lombardia, l’opportunità di anticipare il travagliato parto del
nuovo «centro» politico, e infine, ma non da ultimo, la scadenza del pagamento
dell’Imu hanno dettato i tempi della
sua sesta discesa in campo con cronometrica precisione. A questo punto, l’unica
incognita che potrebbe alterare il piano berlusconiano potrebbe essere un
secondo contropiede di Monti, dopo
l’annuncio delle sue prossime dimissioni: quello di una sua disponibilità al
sostegno di una lista. Per saperlo, bisognerà aspettare la vigilia di Natale. Per Berlusconi (e per Bersani) non
sarebbe certo un bel regalo.
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