da: Lettera 43
Storia
di una Taranto non detta
Paura, disperazione, rabbia. Una blogger
spiega perché è scappata dalla sua città. E perché ora spera che il decreto per l'Ilva non nasconda i problemi. Il governo certo della costituzionalità del dl.
di Antonietta
Demurtas
Federico ha 16 anni. Suona il basso.
Ascolta i Sex Pistols. Risparmia per comprarsi un biglietto per Melbourne. E ha
un tumore alle ossa.
Patrizia è una pediatra e non può avere
figli... ha scoperto che a Taranto esistono tante donne come lei. Le ha incontrate,
ci ha parlato e insieme hanno fondato un comitato cittadino che si chiama Mamme
per Taranto.
Concetta ha l'asma e al marito Fasulino gli hanno asportato un polmone per un tumore alla pleura. Al figlio del nipote, che è nato 5 mesi fa, hanno scoperto un cancro cerebrale.
Concetta ha l'asma e al marito Fasulino gli hanno asportato un polmone per un tumore alla pleura. Al figlio del nipote, che è nato 5 mesi fa, hanno scoperto un cancro cerebrale.
È un' antologia di Spoon river ambientata
nella città dei due mari, quella che una giovane tarantina ha pubblicato nel
suo blog Memorie di una vagina. L'ebook si intitola Arbeit
macht frei. Storie di una Taranto non
detta. L'autrice, che vuole restare anonima, ma per comodità
chiameremo Laura, l'ha scritto di getto nel torrido e anomalo agosto 2012. Era
tornata nella sua città per le vacanze estive e subito si è accorta che
qualcosa stava cambiando: «Il 17 agosto la gente aveva deciso di non andare al
mare, ma in centro città a manifestare», racconta a Lettera43.it.
Ogni tarantino ha almeno un parente malato
Era il giorno dell'arrivo dei ministri
Corrado Clini e Corrado Passera, il caso Ilva era diventato emergenza nazionale
grazie all'inchiesta della Procura tarantina. Tutti i riflettori erano puntati
sulla città e anche Laura decise di scendere in piazza Maria Immacolata.
«Eravamo in tre mila» racconta. «Intorno a me cittadini arrabbiati, determinati,
consapevoli, ma soprattutto stanchi di subire».
La voglia di farsi sentire, vedere e
lottare per la propria città diventò contagiosa, «fu allora che sentii
l'esigenza di fare qualcosa» dice, «e siccome l'unica cosa che so fare è
scrivere, sono tornata a casa e mi sono messa subito a lavorare al libro».
In tre giorni Laura ha messo nero su bianco
tutte le storie di una vita, «che fanno parte del patrimonio collettivo di ogni
tarantino», dice. Storie che le sono sempre passate davanti, quelle che ha
vissuto personalmente o ha sentito raccontare dalla mamma, dalla vicina, dalla
compagna di scuola.
«Perché ogni tarantino ha almeno un parente
malato o che è morto per un tumore». E tutto, come sempre, ruota intorno
all'Ilva, l'impero della monocultura industriale tarantina.
Scrivere Storie di una Taranto non detta
per Laura è stato come compilare un diario della propria città, che lei stessa
ha lasciato dieci anni fa per fare l'università al Nord e poi rimanerci a
lavorare. Così come la maggior parte dei suoi amici è andata via dopo il
diploma, «per un periodo ho anche pensato di tornare», ricorda.
Era il 2006 e studiava a Bologna, poi il comune tarantino dichiarò la bancarotta, «e quando vedi che chi ti deve garantire il futuro è solo un ladro non ti viene certo voglia di tornare». Poi arrivò anche la paura, quella di ammalarsi: «Ogni giorno senti di qualcuno che sta male, parenti, amici e allora inizi a pensare che a Taranto forse non ci devi tornare perché lì i tuoi figli non vuoi farli crescere». È quello che le ripetono sempre i suoi genitori, «mi dicono che devo farmi una vita da un'altra parte perché loro sanno cosa vuol dire vivere lì. E ora se ne vogliono andare anche loro».
Era il 2006 e studiava a Bologna, poi il comune tarantino dichiarò la bancarotta, «e quando vedi che chi ti deve garantire il futuro è solo un ladro non ti viene certo voglia di tornare». Poi arrivò anche la paura, quella di ammalarsi: «Ogni giorno senti di qualcuno che sta male, parenti, amici e allora inizi a pensare che a Taranto forse non ci devi tornare perché lì i tuoi figli non vuoi farli crescere». È quello che le ripetono sempre i suoi genitori, «mi dicono che devo farmi una vita da un'altra parte perché loro sanno cosa vuol dire vivere lì. E ora se ne vogliono andare anche loro».
In città regnano «la rabbia e l'amarezza»
Una decisione che Laura non può certo
biasimare, «il pensiero che un giorno non avrò più una casa a Taranto in cui
tornare mi fa soffrire, ma capisco la loro decisione».
Di speranze per un futuro migliore ce ne
sono poche a Taranto. Il sentimeno più comune è «la rabbia e l'amarezza», dice
Laura, «da un alto speri che l'Ilva chiuda e provi una grande rabbia
perché pensi che tanto aperta potrà solo portare danni irreparabili, ma poi
quando vedi migliaia di operai fuori dall'acciaieria, senza lavoro, e magari
qualcuno lo conosci pure, allora senti solo l'amarezza».
Sentimenti contrastanti, che ogni giorno
assalgono Laura che non sopporta le generalizzazioni fatte in questi mesi
«spesso dicono che a Taranto c'è una guerra tra poveri, operai dell'Ilva contro
cittadini malati, ma non è vero, ognuno di noi ha un amico o un parente che ha
a che fare con l'acciaieria». Sono i personaggi del suo libro, a cui Laura ha
solo messo un nome di fantasia per rispetto. «Tutti in città lottano ogni
giorno per difendere il lavoro, ma anche la salute dei propri figli».
Alla fine è la frustrazione ad accomunare
tutti: «La sensazione è che a parte gli stipendi degli operai, tutta la
ricchezza prodotta dall'acciaieria sia rimasta nelle mani dei Riva, per questo
vorrei tanto che i loro beni venissero confiscati e dati ai tarantini», dice
Laura. «Perché le potenzialità per costruire un futuro migliore ci sono». E ora
che l'attenzione mediatica è alta e anche il resto dell'Italia ha puntato i
suoi occhi sulla città, «spero solo che non si metta tutto a tacere con un
decreto».
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