da: La Stampa
Il
partito del suicidio finanziario
di Massimo
Deaglio
Borsa
che scende, «spread» che sale. Può sembrare una alchimia finanziaria lontana
dalla vita di tutti i giorni, dai bilanci di imprese e famiglie. Purtroppo non
è così, come abbiamo sperimentato negli ultimi cinque anni. Forse il modo
migliore per rendersi conto dell’importanza di quest’infausta congiunzione
consiste nel partire da una constatazione semplice e apparentemente
incredibile: mediamente l’Italia deve restituire ai suoi creditori un miliardo
di euro al giorno, domeniche escluse, ossia circa 300 miliardi l’anno per i
prossimi 6-7 anni.
Come
fa l’Italia a restituire somme così ingenti? Immediatamente prima della
scadenza, «rifinanzia» il debito, ossia si fa prestare, con le aste sul debito
pubblico, una somma all’incirca pari a quella in scadenza, con questa rimborsa
Btp, Cct, Bot e quant’altro, giunti al termine della loro vita. Sono ormai
vent’anni che l’Italia fa così e ha gestito tutto sommato in maniera
soddisfacente, dal punto di vista finanziario, un debito enorme.
Grazie
all’euro, il mercato ha a lungo attribuito il medesimo rischio al debito
sovrano di tutti paesi della nuova moneta, e, per conseguenza, il costo di
questo rifinanziamento è stato relativamente moderato.
In
un certo senso ci siamo fatti scudo dei bassi tassi applicati ai tedeschi.
Dalla
metà del 2011 le cosa sono cambiate, sotto la spinta delle crisi greca,
irlandese, portoghese e spagnola: i mercati hanno cominciato a guardare dentro
alle strutture finanziarie dei paesi debitori. E quello che hanno visto per
l’Italia proprio non li ha soddisfatti. Per conseguenza, il rifinanziamento del
debito ha
cominciato a costarci molto più caro di prima. Si consideri che, per
ogni miliardo preso a prestito dallo Stato italiano – e quindi per ogni giorno
lavorativo – 100 punti in più di
«spread» equivalgono a un costo addizionale di 10 milioni di euro. 500
punti di spread si traducono in un aggravio
di circa 50 milioni al giorno, ossia 18 miliardi l’anno: per procurarseli,
lo Stato deve tagliare le spese o
aumentare le entrate. A luglio 2011 si profilò un’ulteriore complicazione:
alle aste si presentarono assai pochi aspiranti compratori, divenne difficile,
anche a tassi estremamente elevati, trovare chi, un giorno dopo l’altro,
volesse prestar soldi allo Stato italiano.
Questo
è il baratro finanziario in cui l’Italia non è caduta perché è riuscita
contemporaneamente a ridurre lo spread e migliorare i propri conti pubblici. La
minaccia è però sempre lì, una sorta di infezione in agguato che può attaccare
il «sistema nervoso centrale» della finanza pubblica e far precipitare nel caos
il paese in poche settimane.
Di
fronte a questa situazione viene sussurrata, ma a voce sempre più alta, da
alcune forze politiche l’eventualità di non
pagare, di non restituire il debito in scadenza, una sorta di rinascita del
«menefreghismo» di marca fascista che, in una canzonetta di quel regime,
proponeva precisamente la non restituzione del debito («Albione, la dea della
sterlina/ s’ostina vuol sempre lei ragione/ ma Benito Mussolini/ se l’italici
destini/ sono in gioco può ripetere così:/ me ne frego non so se ben mi
spiego»).
Il menefreghismo applicato al debito
rappresenterebbe il suicidio finanziario, e non solo, del Paese per almeno tre motivi. Il primo – del quale si è
avuto un segno premonitore con le forti cadute dei titoli bancari nella
giornata di ieri – sarebbe rappresentato dal crollo delle banche, che hanno investito
gran parte delle risorse finanziarie a loro disposizione precisamente in titoli del debito pubblico italiano, il cui
valore precipiterebbe. Il secondo sarebbe la distruzione della cospicua parte dei risparmi finanziari degli italiani,
investita in titoli statali. Il terzo sarebbe l’evidente difficoltà del Paese a trovare all’estero nuovi prestatori, dei
quali avrebbe disperato bisogno.
’Italia
sarebbe costretta a riadottare la lira
– o una nuova moneta nazionale – che
si svaluterebbe immediatamente nei
confronti dell’euro e del dollaro.
A
questo punto, i risparmi non divorati
dalla svalutazione del debito pubblico sarebbero distrutti da un’inflazione galoppante in quanto i
prezzi dei beni importati andrebbero alle stelle, a cominciare da quelli dei
prodotti petroliferi. Certo, le merci
italiane ritornerebbero
temporaneamente competitive, ma le imprese dovrebbero rapidamente rialzare i prezzi per l’aumento dei costi delle materie prime
importate. La messa al bando dall’Unione Europea e la chiusura delle
frontiere dei nostri partners alle merci italiane ne sarebbero ulteriori,
possibili conseguenze.
Dietro
al baratro finanziario si profilerebbe così un abisso economico-sociale, e
quindi anche politico, un’eventualità della quale i cittadini devono prendere
coscienza. Il segretario del Pdl, Angelino Alfano ha affermato che il suo
partito non vuole «mandare il paese a scatafascio». A scatafascio però
sicuramente andrebbe se il suo partito imboccasse la deriva populista, eco
sinistra di un menefreghismo lontano e disastroso. Il che, allo stato degli
atti, non sembra proprio di poter escludere.
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