da: Il Fatto Quotidiano
San
Raffaele, il gup su Daccò: “Opere di carattere faraonico con i soldi pubblici”
Sono
state depositate le motivazioni della sentenza di condanna a dieci anni dell'ex
uomo d'affari. Il giudice smonta le tesi difensive dell'imputato: "Non
poteva non sapere in che condizioni economiche versava l'ospedale. La sua
condotta illecita non è stata occasionale, ma c'era uno schema ben
definito"
“Opere di carattere quasi faraonico” con i soldi
pubblici. E’ la riflessione del giudice per l’udienza preliminare di Milano,
Maria Cristina Mannocci, che si può leggere nelle motivazione della sentenza di condanna a dieci anni di reclusione per
l’uomo d’affari, Pierangelo Daccò, accusato di associazione a delinquere
finalizzata alla bancarotta.
I modi di agire di Pierangelo Daccò,
secondo il giudice, “escludono una occasionalità o episodicità” della illecita
condotta, mostrando, al contrario, una “professionalità” dell’imputato che si è
concretizzata nella preparazione di uno schema societario adeguato alla
perpetrazione dei reati di bancarotta patrimoniale, ma anche dei reati di evasione
fiscale e riciclaggio“. Uno schema societario “talmente fitto che nemmeno
Daccò è stato in grado di ricordare chi partecipa a quale società, tanto da
affermare che tutte sono riconducibili a lui, ma che il resto lo ha fatto il
suo commercialista Grenci”. Per il giudice “nessun dubbio” sussiste per i danni
provocati alla Fondazione San Raffaele - finita sull’orlo della bancarotta
– sia per le somme “materialmente drenate”, sia riguardo al “danno patrimoniale
e non patrimoniale”.
E nessun dubbio nemmeno riguardo la consapevolezza
da parte dell’imputato della situazione finanziaria in cui versava l’ospedale.
La Mannocci infatti scrive che “appare arduo ritenere che, vista la frequenza e
la natura delle sue visite
al San Raffaele, il solo Pier Angelo Daccò non si
fosse accorto di una situazione di crisi che era perfettamente nota a tutti
all’interno della struttura ospedaliera”. Molti passaggi delle motivazioni il
giudice li dedica a dimostrare la consapevolezza dell’uomo d’affari della
situazione di dissesto patrimoniale in cui si trovava la fondazione.
Una delle tesi difensive infatti era stata
quella che Daccò non aveva compreso la situazione economica in cui versava il
San Raffaele. Invece “dagli atti – sostiene il gup – emergono plurime e
univoche circostanze che permettono di affermare la sussistenza della sua piena
conoscenza e consapevolezza di una situazione sul ‘filo del rasoio’ e quindi di
rischio in cui il San Raffaele si trovava già al momento in cui sono avvenute
le condotte contestate”. Il giudice ricorda di incontri tra Daccò e il
direttore generale della sanità lombarda, Carlo Lucchina, e in relazione a
questi osserva che “anche solo per farsi portavoce del San Raffaele davanti al
massimo organo amministrativo della sanità regionale, Daccò doveva
accuratamente conoscere (come ovviamente conosceva) la situazione gestionale e
finanziaria dell’ente di cui aveva il potere di spendere il nome e da cui ha
peraltro ricevuto ingentissimi versamenti di denaro“.
Per quanto riguarda le opere “faraoniche”
pagate con i soldi pubblici, “il San Raffaele, pur essendo una realtà di
eccellenza in ambito sanitario – spiega il gup – fondava la propria
sopravvivenza sui corrispettivi della propria attività (che non avrebbero da
soli permesso di sopravvivere) e su contributi pubblici in genere non
determinabili a priori anno per anno, anzi, la scarsità di questi contributi,
soprattutto quelli regionali, è stata oggetto spesso di lagnanze anche
pubbliche del dominus della Fondazione, don Luigi Verzè, morto il 31 dicembre
dell’anno scorso. A fronte di ciò il regime delle spese era ingente: si
andava da continue opere di ristrutturazione e ampliamento, talvolta di
carattere quasi faraonico, ad iniziative, in Italia e all’estero, la cui
redditività era nulla, passando per acquisizione di strutture e strumenti
(questi effettivamente destinati a finalità sanitarie) che imponevano un
impegno altrettanto ingente”.
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