da: la Repubblica
Per una volta, il governo Letta ha deciso.
Quel trucco che faceva apparire un finanziamento molto generoso e
incondizionato ai partiti come un rimborso per le spese elettorali è stato
abolito. È una decisione sacrosanta.
Considerando l’ostruzionismo del Parlamento
nel cancellare quella ignominia, incurante del crescente distacco, per usare un
eufemismo, fra politici e cittadini. Ma i
tweet trionfali di Letta e Alfano hanno omesso due particolari importanti.
Primo, si tratta di una decisione presa
solo a metà, perché postdatata: il nuovo regime di finanziamento dei partiti
entrerà compiutamente in vigore solo nel 2017.
Nel frattempo tutto può succedere, compreso un clamoroso dietrofront alla
scadenza di questo governo, nel 2015. Secondo, non è chiaro come il
finanziamento privato dei partiti verrà regolato. Non si tratta di un aspetto
secondario dato che il finanziamento privato dei partiti non è meno privo di
insidie di quello pubblico.
Vediamo prima di chiarire come funzionava l’inganno di cui ieri è stata annunciata
la futura cancellazione. Poi i rischi
insiti nella privatizzazione dei contributi ai partiti.
Il sistema sin qui è stato basato sulla ripartizione di quattro fondi,
rispettivamente per Camera, Senato, regionali ed europee.
L’ammontare di ciascun fondo è di poco meno di un euro per ogni anno di
legislatura per ciascun cittadino iscritto nelle liste elettorali. Nel
complesso si tratta di circa 200 milioni
di euro l’anno da ripartire in misura proporzionale fra tutte le liste che
superano una soglia minima di voti o di eletti. Fino a poco tempo fa, era
previsto che il rimborso continuasse per
cinque anni anche in caso di scioglimento anticipato delle Camere. Motivo
per cui, fra il 2008 e il 2011, i
partiti (comprese le formazioni non
più esistenti o non più rappresentate in Parlamento) hanno ricevuto somme di
molto superiori a quanto previsto da una già generosa legislazione.
Il finanziamento
pubblico è stato in tutti questi
anni eccessivo rispetto ai costi
della campagna elettorale (stimabile in circa mezzo euro per voto a fronte dei
7 in media erogati) e basato su tre
inganni. Il primo è che i
finanziamenti fossero commisurati
agli sforzi compiuti in campagna elettorale, dunque ai voti effettivamente
ricevuti. Invece prendeva come riferimento gli elettori potenziali permettendo
a molti partitini e addirittura “one-man party” di comodo di proliferare. Il secondo inganno è che si trattasse di
un rimborso spese quando in realtà non si esigevano ricevute attestanti le
spese effettivamente sostenute nelle fattispecie consentite dalla legge per
svolgere determinate attività. Il terzo
inganno è che per stabilire il “rimborso” massimo consentito non si applicava
affatto il principio di efficienza
che si vuole oggi adottare nella spending review e che si ispira alla
definizione dei costi standard nelle prestazioni sanitarie, vale a dire
prendere come riferimento il partito che aveva ricevuto più voti in rapporto
alle spese elettorali.
La normativa
in vigore dal 2017 prevede solo il finanziamento privato dei partiti. È una
strada, bene saperlo, piena di insidie. Quello principale è legato alla “cattura” del legislatore da parte di lobby
potenti e danarose, con connesse disparità di rappresentanza politica fra
chi può permettersi di finanziare un candidato e chi no. Per evitare che
qualche signore facoltoso o qualche ricco gruppo di pressione abbia
un’influenza eccessiva sulla politica, è necessario che esista un tetto massimo alle donazioni che
individui, imprese o associazioni possono fare ad un partito e che questo tetto
venga fatto scrupolosamente rispettare. Gli studi di Snyder e Prat dimostrano
che i politici migliori, quelli più indipendenti, sono quelli che raccolgono
tantissimi contributi, tutti di piccolo importo. C’è anche il rischio che un
ammontare eccessivo di tempo (fino al 50 per cento, secondo alcuni politici
americani) debba essere dedicato al fundraising, a detrimento delle attività parlamentari
in senso proprio. Alla luce di queste insidie, viene da chiedersi se fosse davvero necessario eliminare completamente il finanziamento pubblico. Si poteva forse rivederlo, applicando il principio dei
costi standard per portarlo a un 1/14 dei livelli attuali, vale a dire
circa 15 milioni. Si poteva, inoltre, sottoporlo a regole più stringenti che
impedissero un uso privato dei fondi pubblici, come quello alla base di molti
scandali nostrani.
Aspettiamo perciò a brindare alla fine
futura dell’ignominia, perché questa cancellazione
è ancora tutta in divenire. Avremmo
preferito una riforma magari meno radicale, che optasse per un sistema misto, anziché per
l’abrogazione tout-court del finanziamento pubblico dei partiti, ma che
entrasse subito in vigore. Del resto lo strumento del decreto legge dovrebbe
essere usato per norme che siano di efficacia immediata, prima ancora del
passaggio parlamentare. Bene, in ogni caso, preoccuparsi fin da subito di
stabilire chi (Corte dei Conti o authority ad hoc) dovrà esercitare
supervisione sui partiti, anche in attuazione dell’articolo 49 della
Costituzione. Perché i cittadini e gli
stessi militanti dei partiti non
tollerano più i bilanci opachi dei
partiti e vogliono sapere non solo da chi arrivano i soldi cui attingono coloro
per cui dovrebbero votare, ma anche come questi soldi vengono utilizzati.
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