di Adriano
Sofri – da: la Repubblica
Quello
sguardo oltre le sbarre che guida i giovani.
MANDELA nacque nel 1918, quando quella che
noi chiamiamo Prima Guerra Mondiale stava per finire. Nel 1914 Gandhi aveva
lasciato il Sudafrica in cui per ventun anni aveva svolto il suo tirocinio
nonviolento, ed era arrivato a Londra nel momento in cui la Grande Guerra
scoppiava.
Il tirocinio militante di Mandela fu non
violento, a ridosso di quella che chiamiamo la Seconda Guerra Mondiale, quando
l’apartheid segregò ferocemente la comunità indiana e asiatica e il bantustan
dei neri africani. Nel giro di pochi anni Mandela e i suoi reagirono alla
spietatezza afrikaner scegliendo di lottare con le armi, né il lungo cammino
successivo, anche dopo la liberazione e la riconciliazione, fece di Mandela un
fautore assoluto della nonviolenza (cui lo stesso Gandhi riconosceva estreme
eccezioni). Ma un filo lega la testimonianza e il mito di questi due campioni
della libertà, che uno stesso carcere di Johannesburg ebbe detenuti.
La prigione ha segnato ben diversamente
Mande-la, lungo quasi 27 anni, e 18
trascorsi nell’isolamento crudo di Robben
Island. La vita lunghissima di Mandela ha incastonato quella micidiale
prigionia fra passato e futuro, fino al distacco protratto degli ultimi mesi:
al contrario della fine di Gandhi tradito e assassinato. I due destini diversi
e complementari disegnano a gara le magliette dei ragazzi. In tempi di distanza
rancorosa fra le generazioni, Mandela è fatto per essere amato dai ragazzi come
un buon maestro, per la testimonianza fiera di una vita, e la distanza presa
dal potere. E per non essersi ridotto a un monumento, e aver tenuto memoria del
suo bel primo nome di Rolihlahla — il piantagrane, l’attaccabrighe. Dalla
presidenza si allontanò dopo un mandato.
I ragazzi hanno bisogno di maestri molto
vecchi, che abbiano tenuto a distanza il potere, che corrompe piuttosto i loro
eredi. L’Africa va avanti, benché continuino guerre mondiali di milioni di
morti senza più alibi anticoloniali, fra rivoluzionari trasformati in despoti
dinastici e capibanda in proprio o al soldo degli insospettabili. La condizione
peculiare del Sudafrica, con la sua tribù bianca afrikaner e il lungo
colonialismo britannico, ha mostrato alla fine l’assurdità della disputa su che
cosa sia indigeno e che cosa straniero. Il guerrigliero ed ergastolano
Mande-la, eletto presidente, si indirizza in afrikaans ai funzionari spaventati
e pronti ad abbandonare: scena esemplare per tanti posti del mondo, a
cominciare da Israele e Palestina. Nei libri di Andrè Brink l’umanità degli
afrikaner e delle tribù nere si scopre affine e anzi parente. Israeliani e
palestinesi si conoscono a fondo, dice Grossman, e si riconoscono somiglianti,
possono specchiarsi gli uni negli altri. La controversia fra chi è indigeno e
chi è straniero, per mostrarsi assurda e superstiziosa, ha però bisogno che lo
schiacciante divario di forze si equilibri.
Quando Botha inaugurò un dialogo con lui,
Mandela era in una cella, e ci sarebbe restato ancora a lungo, e da lì aveva
maturato la sua apertura senza cedimenti, e personalmente integerrima. Un
riequilibrio dei rapporti di forza, suscitato dalla resistenza dei più deboli e
dalla lenta reazione della comunità internazionale, ha a che fare, più ancora
che con l’interesse materiale dei più forti, con la riottosità dei loro
cervelli e pregiudizi, senza di che basterebbe la persuasione. Il genio
cordiale di Mandela dubitò di poter contare sulla propria forza fino al punto
di rovesciare quella avversaria, e soprattutto decise che quella vittoria
sarebbe stata una sconfitta per ambedue. «Oppressore e oppresso sono derubati
entrambi della propria umanità».
Il Sudafrica del passaggio dall’apartheid
alla democrazia scambiò la guerra civile con lo sforzo di verità e
riconciliazione — come l’India dell’indipendenza, lacerata però dalla
secessione, che fu per Gandhi il dolore irreparato e la morte. La Commissione,
che guardava al Cile del dopo-Pinochet, e sarebbe stata guardata da tanti paesi
martoriati, e mancata in altri dove più occorre, come la Bosnia, mise la verità
umana davanti a quella giudiziaria, e la riconciliazione al posto della
vendetta, senza far torto alle vittime. Fu piena di simboli, la vicenda
sudafricana, e non a caso fonte formidabile di racconti e film e canzoni — è
soprattutto nella musica dei grandi concerti che la leggenda di Mandela ha
incontrato i giovani. Mandela ricevette il premio Nobel uscendo da una galera
in associazione con De Klerk che usciva dal palazzo, e per rientrarvi grigiamente
da suo vice. Guardate la pagina di Wikipedia, in fondo, dov’è la lista delle
medaglie e onorificenze assegnate a Mandela: appese tutte insieme a un petto,
avrebbero fatto stramazzare un gigante. Era inevitabile che diventasse anche un
marchio, e del resto pure lui teneva famiglia, anzi famiglie, e ne era tenuto,
e il mondo si inondò di cianfrusaglie e perfino delle sue impronte digitali
carcerarie controfirmate: lezione istruttiva ai carcerieri, se sapessero
apprenderle, a cominciare da quella croce che doveva essere segno di infamia, e
diventò di martirio e devozione.
Mi piace la fotografia in cui Mandela tiene
un gomito sul ripiano della finestra, e guarda oltre le sbarre: non fuori dalle
sbarre, ma oltre. È molto ufficiale, e magari è stata presa in una visita da
libero al suo vecchio carcere, e vuole significare la lungimiranza tenace
dell’uomo che sa guardare comunque al futuro. Mi piace lo stesso, per una
ragione che so, e che mi ha appena confermato il racconto di una visita estiva
all’Asinara, dove i gitanti vanno richiamati, oltre che dalla bellezza
naturale, dal richiamo torbido del carcere speciale. C’è, a guidarli, un uomo
che fu a lungo agente penitenziario, e ha voluto restarci e per la sua
competenza ne è diventato custode, e avverte le allegre comitive curiose dei
prigionieri più famigerati: «Ci sono stati qui i colpevoli di crimini efferati,
e tuttavia questo era un luogo di dolore e sofferenza, e solo un cretino
potrebbe desiderare di venirci per farsi la foto con la faccia dietro le sbarre
e le mani che vi si aggrappano».
Era bello esser vivi in un mondo in cui era
vivo Mandela. Penso a chi, della generazione meno giovane, morì al tempo delle
cose che non avremmo mai creduto di vedere cambiate: non so, la fine dell’Urss,
l’uscita di Madiba dall’ergastolo, la fine dell’apartheid. Certo, sono durate
così a lungo. Ma quello fu il più grande equivoco della nostra generazione: di
crederle incrollabili, e che la resistenza contro di loro fosse solo un fulgido
esempio morale, e che invece la lotta capace di cambiare le cose, e trascinare
un giorno nei propri successi il trinceramento progressivo e infine il
soffocamento delle dittature, potesse avvenire solo nelle democrazie. Scoprire
che le cose infrangibili vanno improvvisamente in frantumi per un urto
inaspettato è stata la lezione, che dunque incombe sulle altre muraglie che
vogliono sembrare perenni, fino alla Cina dell’ultracapitalismo socialista.
Tutto cambia. Mandela muore mentre il mondo va esplodendo per motivi
drammatici, tragici, futili e belli. Non si prevengono i motivi drammatici e
futili se non facendo larga giustizia, e però tenendo sempre la valigia pronta.
Pensino questo, nella tribuna d’onore del funerale del piantagrane ammiraglio
Nelson Rolihlahla Mandela: nessun potente può scommettere sulla propria durata.
Nessun commento:
Posta un commento