da: la
Repubblica
Fin qui abbiamo visto
come in uno specchio, in maniera confusa, l’impoverirsi italiano: lo leggevamo
nella scienza triste delle statistiche, delle percentuali. Ora lo vediamo
faccia a faccia: è l’insurrezione formidabile, generalizzata, di chi patisce
ricette economiche che piagano invece di risanare. Non è insurrezione pura,
anzi il contrario. Non è collera di operai ma dei più svariati mestieri, perché
tutti precipitano, anche il ceto medio che s’immaginava scampato e tanto più si
sgomenta. In molte regioni il movimento è agguantato dalle mani predatrici
della destra estrema, o berlusconiana, o leghista.
Già sei anni fa, il
Censis avvertì governi e politici: attenzione — disse — l’Italia è una “poltiglia”
che ha smesso di sperare nel futuro, non potete far finta di niente. Prima
ancora, fra il 2003 e il 2004, nacque la canzone che divenne emblema del sito
di Grillo ed è oggi parola ricorrente del movimento 9 dicembre: «Non ce la
faccio più!». Qualche mese fa sui muri di Atene comparve una scritta, contro
l’Unione europea, che echeggia il nuovo antieuropeismo italiano: «Non salvateci
più!».
È detta rivolta dei
forconi, perché volutamente rimanda alle jacquerie contadine
del ’300. Neppure
questa è una novità. La crisi frantuma la società, il vecchio scontro fra chi
nella scala sociale stava sopra e chi sotto è soppiantata dall’atroce
separazione tra chi sta dentro i castelli signorili e chi è fuori: escluso, non
visto, non più rappresentato, ignaro della vecchia contrattazione perché il
sindacato protegge i protetti, non chi è allo sbando. Hilary Mantel, scrittrice
inglese, sostiene che gli inglesi son ricaduti nel Medio Evo: «La povertà è di
nuovo equiparata a fallimento morale e debolezza, e l’assistenza pubblica
anziché un diritto è un privilegio».
C’è di tutto, nel
tumulto degli impoveriti: i piccoli commercianti che non rientrano dallo
scoperto bancario, gli artigiani senza soldi per pagare le tasse e puniti dai
tassi usurai praticati da Equitalia, i proletari giovanili del precariato, gli
autotrasportatori, e il popolo delle partite Iva che usava evadere, che votava
Lega, ed è ora sul lastrico.
Non stupisce che nel
movimento si attivino destre eversive come Forza Nuova o CasaPound. La Casa della
Legalità a Genova sospetta infiltrazioni mafiose a Torino, Imperia,
Ventimiglia, Savona. Alcuni inneggiano a governi militari, come in Grecia.
Andrea Zunino, agricoltore, rappresenta solo se stesso ma si proclama leader e
confessa, a Vera Schiavazzi su Repubblica, la sua ammirazione per la dittatura
nazionalista e xenofoba del premier ungherese Orbàn. Si domanda, anche, come
mai «5 o 6 tra i più ricchi del mondo siano ebrei».
Lo sguardo lungo della
storia è utile, per ascoltare e capire la storia mentre si fa. Forse più dello
sguardo degli economisti, disabituati a pensare l’uomo quando dice, nel
sottosuolo, «non ne posso più». Jacques Le Goff, non a caso specialista del
Medio Evo, denunciò già nel ’97 la nefasta smemoratezza storica degli
economisti: «Una lacuna tanto più disdicevole se si pensa che la maggior parte
degli stessi economisti, che hanno acquisito nelle nostre società e presso i
governi europei e mondiali un’autorità spesso eccessiva e a volte
ingiustificata, non hanno una buona conoscenza della storia economica e, cosa
ancor più grave, si preoccupano poco della dimensione storica».
Anche l’apparire di un
personaggio come Pierre Poujade, negli anni ’50 in Francia, sorprese le élite
dominanti quando si mise alla testa di una vastissima rivolta di piccoli
commercianti e artigiani fino allora trascurati. Anche quel movimento, effimero
ma per alcuni anni possente, covava sporadici pensieri fascistoidi,antisemiti
(il bersaglio era il premier Mendès France, «non autenticamente francese»). Gli
intellettuali lo stigmatizzarono, da Roland Barthes a Maurice Duverger. Più
fine e terribilmente attuale il giudizio che diede lo storico-geografo André
Siegfried: figli reietti della deflazione, i poujadisti «si dibattono nel
chiasso, con i gesti disordinati della gente che annega».
Qui si ferma tuttavia
il paragone. Poujade spuntò nell’era della ricostruzione e del Piano Marshall,
a partire dal 1953. Lottava contro le trasformazioni di una crescita forte: le
prime catene di supermercati che bandivano i negozi tradizionali, e le tasse
innanzitutto, chedopo la Liberazione misero fine a tanti vantaggi — penuria,
prezzi alti, mercato nero — accumulati in guerra dal piccolo commercio. Ben
altro clima oggi: c’è deflazione, ma senza trasformazioni e senza vere rappresentanze
locali. È una discesa di tutti, tranne per i ricchissimi.
Forse per questo viene
meno il mito della Piazza, caro a Poujade. La piazza romana divide i capi
dell’odierno movimento, e i più temono infiltrazioni neofasciste. La parola che
usano di più è “presidio”. Importante non è sfilare davanti al centro del
potere ma presidiare i propri territori, i “pochi metri quadrati di pavimento”
di cui parla Kafka, su cui a malapena stanno diritti.
Ma, soprattutto, quel
che manca oggi alla rivolta è un’egemonia culturale e politica che la
interpreti e non la sfrutti elettoralmente. Il poujadismo fu all’inizio
egemonizzato dai comunisti, che presto si ritrassero. Poi fu De Gaulle ad
assorbirlo. La partitocrazia esecrata dai poujadisti fu lui a spegnerla, creando
una repubblica presidenziale; e poté farlo perché nella Resistenza era stato
uomo senza macchia, capace di incarnare il meglio e non il peggio della
nazione, di redimerla e non di inchiodarla ai suoi vizi. Non così da noi:
specie nell’ultimo trentennio.
Sono tante le colpe di
chi ha lasciato gli impoveriti senza rappresentanza e senza futuro. “Troppo
volgare è stato l’esodo della sinistra, di tutte le sinistre, dai luoghi della
vita”, scrive Marco Revelli sul Manifesto del 12 dicembre, e pare di riascoltare
l’economista Federico Caffè quando deprecava il «mito della deflazione
risanatrice » e l’indifferenza dei politici, degli economisti, degli stessi
sindacati, a chi questo mito lo pagava immiserendosi.
Gli adoratori del mito
fanno capire che non c’è niente da fare: altra medicina non esiste. Mario Monti
quand’era premier invitò addirittura a rassegnarsi: una generazione è perduta.
La realtà è ancora più cupa, se pensiamo che in Italia i Neet (le persone che
non lavorano né studiano-Not in Education, Employment or Training)sono il 27%
fra i 15 e i 35 anni, non fra i 16 e i 25 come si calcola in altre democrazie:
vuol dire che stiamo parlando ormai di due generazioni perdute, non di una
sola.
C’è da fare invece, se
si aprono gli occhi su quel che accade nei luoghi della vita (sono questi i
«presìdi»), e non si trasforma la rivolta in mero affare di ordine pubblico. Se
la sinistra non lascia alle destre il monopolio su una disperazione in parte
poujadista e regressiva, in parte assetata di giustizia e uguaglianza di
diritti. Se si tira la gente verso l’alto e non il basso; verso l’Europa da
cambiare e non verso la bugia dell’assoluta sovranità nazionale.
È un insulto al
movimento bollarlo come fascista, ma anche abbracciarlo con euforica, ipocrita,
e finta acquiescenza. Senza linguaggio di verità, inutile sperare in
un’egemonia culturale che aiuti a pensare chi insorge. È quel che tenta Paolo
Ferrero, quando adotta il parlar-vero e dice al movimento: in fondo la vostra è
una battaglia subalterna al liberismo che combattete; è dal liberismo che
attingete i vostri slogan anti-statalisti, anti-tasse, anti-sindacato.
Non ha torto: molto
accomuna i nuovi movimenti italiani al moderno tea party americano, oltre che
al poujadismo di ieri. Meglio schiodarsi da simili modelli, se non si vuol
restar prigionieri di un nazionalismo che vuol liquidare il Welfare, e che non
aiuterà chi soffre la povertà e la perdita dei diritti.
Nessun commento:
Posta un commento