da: la
Repubblica
È probabile che gran
parte degli elettori, votando Renzi e anche Civati (82%, insieme), più che un
nuovo capopopolo abbia cercato precisamente questo: uscire dal ventre, chiudere
l’era fetale, e fatale, cara a Napolitano.
Prima ancora che
Matteo Renzi vincesse le primarie, era chiaro che la stabilità intesa come
valore assoluto era una cornice vuota, senz’alcun dipinto dentro. Giaceva a
terra, come il potere dei vecchi regimi che i rivoluzionari raccattano
facilmente. Il nuovo segretario del Pd gli ha assestato il colpo di grazia,
domenica a Firenze («ai teorici dell’inciucio diciamo: v’è andata male») e in
un baleno il mondo di ieri è apparso ingrigito, obsoleto. È così anche se Renzi
non sarà che schiuma delle cose.
Già da tempo in Europa
son fallite le strategie anticrisi che come fondamento hanno scelto la
sospensione della democrazia e dell’idea stessa di conflitto, sociale o
politico. Anziché spegnersi, la crisi s’è acuita. Perfino il Wall Street
Journal, in nome dei mercati, ha scritto il 24 novembre che i toni sempre
bassi, i compromessi tra oligarchi, la pacificazione come dogma, prefigurano la
«stabilità dei cimiteri». Continueranno a prefigurarla se Renzi non oserà
un’autentica resa dei conti con Letta, e si consumerà in trattative, rinvii
presto sgualciti, fiducie concesse avaramente, ma pur sempre concesse.
Il suo tempo è
brevissimo, perché enorme è la forza d’inerzia dei vecchi regimi, anche se
incartapecoriti. Possiedono l’energia del corpo che non cessa di gorgogliare
anche dopo morto, come nell’Illustre Estinto di Pirandello: sottosegretari
deputati e curiosi s’affollano nella camera ardente, e nel silenzio quasi sacro
della scena può accadere l’inatteso: «Un improvviso borboglìo lugubre,
squacquerato, nel ventre del cadavere, che intronò e atterrì tutti gli astanti.
Che era stato? — Digestio post mortem, — sospirò, dignitosamente in latino, uno
di essi, ch’era medico, appena poté rimettersi un po’ di fiato in corpo».
Il che vuol dire: nel
ventre d’Italia tutto è ancora possibile, anche il borboglìo squacquerato che
inneggia alla stabilità degli inciuci, e questo per il semplice fatto che il
Paese vi sta rannicchiato da anni. Dante avrebbe detto, con i suoi magnifici
neologismi: s’è inventrato nella stabilità oligarchica. Con linguaggio più
moderno l’ultimo rapporto del Censis — presentato il 6 dicembre — usa metafore
identiche. Narra un’Italia imbozzolata, senza «sale alchemico»: «sciapa,
infelice», cerca riparo nella Reinfetazione. Reinfetazione è quando ti rifai feto:
torni nella pancia, il cordone ombelicale ti tiene al guinzaglio.
Finché non nasci,
resti stabile tu e anche chi comanda: «Con annunci drammatici, decreti
salvifici, complicate manovre, la classe dirigente si presenta come l’unica
legittima titolare della gestione della crisi» (Censis). È il dispositivo, al
tempo stesso disciplinatore e rasserenante, che il pacificatore Napolitano
coltiva da anni. Nella reinfetazione, scrive De Rita nel suo 47° rapporto,
tutti i soggetti politici, i rappresentanti, le forze sociali, vivono «in stato
di sospensione nelle responsabilità del Presidente della Repubblica». Vogliose,
ma incapaci di «tornare a respirare».
Questo teorema
avvizzisce d’un colpo: in realtà la reinfetazione «riduce la liberazione delle
energie vitali. Implica il sottrarsi alle proprie responsabilità dei soggetti».
Usa crisi e paure per salvaguardare il potere di poche, chiuse cerchie. Riduce
e demonizza il conflitto, quando dovrebbe invece considerarlo sale della
rinascita. Tradisce le speranze in Rodotà o Prodi. È probabile che gran parte
degli elettori, votando Renzi e anche Civati (82%, insieme), più che un nuovo
capopopolo abbia cercato precisamente questo: uscire dal ventre, chiudere l’era
fetale, e fatale, cara a Napolitano. Riabilitare il conflitto, a cominciare da
quello contro le larghe, strette, o larvate intese. Non sappiamo fino a che
punto Renzi ne sia conscio. Se non lo è non gli basterà la veduta lunga
consigliata da Fabrizio Barca. Entro un anno sarà sfinito.
Il rapporto del Censis
non è stato il solo segno precursore. Non avremmo i sussulti odierni, senza la
scossa di 5 Stelle. E anche la Corte costituzionale ci ha messo del suo, il 4
dicembre, abolendo un Porcellum carezzato per 8 anni dalla classe politica. È
vero, nel gennaio 2012 proprio la Consulta bocciò il referendum col ritorno al
Mattarellum chiesto da 1,2 milioni di cittadini. È innegabile, essa ci
restituisce il grado zero della democrazia (la proporzionale). Ma mette i
politici davanti alla verità e dice: volutamente avete preferito regole che
hanno promosso i rappresentanti dei partiti anziché dei cittadini, allargando
la faglia tra voi e loro, e questo lo dichiariamo illegittimo. Se non vi date
da fare, avrete il proporzionale come nella Repubblica di Weimar. Una iattura?
La questione è controversa, tra gli storici tedeschi: se Hitler vinse,
sostengono molti, la colpa non fu solo del proporzionale.
Zagrebelsky ricorda
giustamente che lo Stato continua, dopo la sentenza. (clicca qui se non hai
letto l’articolo di Zagrebelsky) Ma Stato non è sinonimo di governo. E il
Parlamento attuale, pur non annullato, di fatto è «delegittimato dal punto di
vista democratico». Si è delegittimato lasciando che il gong, ogni volta,
venisse suonato da fuori: da outsider come Grillo, i magistrati della Consulta,
gli elettori dei referendum. Anche qui il Censis parla chiaro: la salvezza,
anche economica, verrà dagli esterni. Dagli immigrati che si fanno imprenditori
con più lena degli italiani, dalle donne che fondano aziende, persino dai
giovani che fuggono all’estero e si riveleranno una risorsa. Tutti costoro, e
tutti i movimenti cittadini di protesta, sono come un esercito straniero di
liberazione: pronti ad approdare in Italia come le truppe anglo-americane in
Sicilia e Calabria nel luglio e settembre ’43.
È uno sbarco
generalizzato — Grillo ha dato il via, poi son venute la Consulta, le parole
del Censis, le euforiche primarie — e per forza il popolo è «allo sbando», come
l’8 settembre ’43 all’armistizio. Colpisce che l’espressione — Paese sbandato —
appaia in tanti commenti di questi giorni. L’aveva usata Elena Aga Rossi, nel
bel libro sulla fine della guerra (Una nazione allo sbando, 2003). Furono anni
di viltà, doppiezze furbesche: così affini agli anni presenti. Il governo Badoglio
ordinò la resa agli alleati, ma senza rompere l’inciucio col socio nazista. Il
giorno dopo fuggì col Re consegnando ai tedeschi due terzi dell’Italia, Roma
compresa.
Seguì una reazione
disperata del Paese, caotica. I più tornarono a casa senza battersi, e però la
patria non morì: il 9 settembre nacque il Comitato di liberazione, e furono
tanti i militari che rifiutando la doppiezza combatterono Hitler. Tuttavia il
caos poteva esser risparmiato, se la rottura con il fascismo fosse stata netta.
Se non fosse perdurata l’abitudine a restare nel suo ventre, a reinfetarsi. Ne
nacquero film come Tutti a casa di Luigi Comencini, o ancor più Vita difficile
di Dino Risi. Il protagonista di quest’ultimo — impersonato da Sordi — senza
fine narra il nostro sperare e disperare, credere e sbandare. I suoi urli d’ira
sulla litoranea di Viareggio, contro il Paese che ha tradito lui e la
Resistenza, esplodono tali e quali in questi anni, questi giorni. Il voto a
Renzi è l’ultimo della serie.
È una vittoria che
molti (Renzi stesso, magari) vorrebbero usare a piacimento: per emarginare e
silenziare le grida di cui è figlia. Troppo presto forse Enrico Letta ha detto:
«Non è un voto contro di noi. È un argine contro il populismo e la deriva
distruttiva, estremista» di Grillo, più che di Berlusconi. Il senso del voto è
in mano a Renzi. Non mente quando dice: l’urlo dei Vday è altro dalle primarie.
Ma nella sostanza è simile quel che muove ambedue: la rabbia, la sete di
rigenerazione. Ignorarlo è rischioso, non solo per lui. È rischioso anche per
l’Europa, bisognosa di scosse simili. Non per scaricarla (lo Stato del tutto
sovrano è imbroglio) ma per edificare, questo sì, una vera Comunità.
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